giovedì 12 settembre 2013

SENTO UNA PRIMAVERA di Annitta Di Mineo (13/09/2013)

Se devo essere sincero, è la prima volta che mi capita tra le mani un libro di poesia patrocinato da un Comune. Questo libro che mi è stato regalato, è intitolato: “Sento una Primavera”, ed è stato scritto da Annitta Di Mineo; è stato pubblicato col contributo e, ripeto, col patrocino del suo Comune natale, Mirabella Imbaccari. Primo stupore. Bella cosa. E non poteva essere e fare altrimenti il Comune di Mirabella Imbaccari visto che le poesie di Annitta parlano della sua infanzia e dei luoghi che l’hanno cresciuta – dove “lo sguardo naviga l’infinito”.
Non sono amante di certa poesia, ma l’altro mio lavoro – quello che mi mette i contributi all’Inps – mi dà la possibilità di leggere solo cose brevi nell’intervallo tra una chiamata e una ricerca sul computer. E questo libro si addiceva molto alle pretese del tempo essendo composto da liriche fulmine di massimo 8/10 righe.
Ho preso questo libro con la solita reticenza che mi compete e mi diverte tanto, e devo dire che mi ha stupito per la seconda volta.
Inizialmente mi ero spaventato sufficientemente leggendo la nota introduttiva da parte del Sindaco. La reticenza stava già per prendere il sopravvento, ma superando questo scoglio (non quello della reticenza, ma quella del commento istituzionale), mi sono trovato di fronte ad un ermetico cosmo di parole toniche e ricercate con una precisione scultorea  e architettonica riguardo i versi troncati al solo soggetto verbo, come a voler lasciare al lettore il compito di riempirli.
Le poesie sono basate sul ricordo e sulla pura descrizione del luogo. Certo, ci imbattiamo in qualche frase fatta come “sensazioni dimenticate riemergono”, ma condite da immagini nobili come “Crinali brulli/ filari virenti/ Chiome argentee/ Macchie solitarie”. Nel suo poetare c’è molta semplicità. Capita la filosofia minima, l’aforismo carino, la retorica comune, la metafora essenziale. C’è anche una filastrocca, a mio parere.
Le cose che conquistano sono due. La prima è la posizione ordinata e rigorosa della parola. La seconda è l’empatia e l’emozione che alcune poesie riescono ad emanare. Ti assorbono e ti proiettano in quei posti così scarni eppure strapieni di colori. Magia?
Devo dire, però, che non tutto è andato per il verso giusto: trovo ridicola la sezione Primavera, ad esempio (già, il libro è diviso in quattro parti; cioè le quattro stagioni). Troppa retorica brutta. Troppa banalità d’immagini e metafore. Troppa superficialità, in confronto alla perfezione del verso in altre liriche precedenti. Poca passione. Quasi forzata. E addio magia.
Questa la ritrovo rileggendo le tre poesie che vi leggo e in altre come “Non sai più”, “Kaos” o “Camminare”. Sono riuscite a tele-trasportarmi alla mia infanzia nella mia terra, con un po’ di nostalgia mista a felicità.
Non so mai come certe cose possano accadere, ma con la poesia bisogna sempre stare allerta. Per fortuna.

.Radici.

Seduta sulla sabbia tiepida
affondo i piedi in cerca delle mie radici
salsedine permea radici

Il mare ruggisce
Colonna sonora si scaglia 
Il ritmo dei flutti s’annuncia

Lo sguardo naviga l’infinito

***

.Molecole.

Folgore in una notte di pioggia
Fiammata in una mattina d’inverno
Liquido infocato sotto la neve

C’è vapore nell’aria

Emissioni di molecole
accordano alle note

- Non posso pensare senza sentirmi rimescolare le viscere –

***

.Palombaro.

Spinto dalla corrente oceanica
corpo sprofonda abissale

All’anima in superficie
ammaliano richiami

Il palombaro dritto sale
all’essenza della vita

venerdì 2 agosto 2013

IL VOLO MIGRATORIO di Andrea Garbin (02/08/2013)



PREMESSA ALLA CRITICA.
Uno: sarà una recensione seria e concisa.
Due: per un po’ lascerò perdere le letture di viaggio. Feriscono, principalmente quando non si hanno vacanze e il 15 agosto è un giorno lavorativo come un altro. Ahia iaia iai!

INIZIO DELLA CRITICA.
<<Può dirsi viaggiatore solo chi parte per partire.>>, diceva Baudelaire. Come un abbandono. Come lasciarsi trasportare. Scoprendo per scoprire. Passo dopo passo. Ogni cosa è “terra nova”. Come un esploratore incosciente. Come un viandante che aspetta la meraviglia dietro una roccia.
Così Andrea Garbin, poeta mantovano, nel suo ultimo libro “Croce del Sud” (Gilgamesh Edizioni), ci accompagna nel suo viaggio ai confini più estremi del mondo tra i condor e le alture e il mare ambrato di Neruda e tra le Ande misteriose sotto la lente d’ingrandimento e il piccone di Francisco Moreno. Siamo in terra di grandi battaglie e maestosa natura. Andrea esplora i luoghi e la descrizione fa da capo bastione in queste poesie cariche di parole tronche che inzuppano di immagini il lettore (“Nel perdersi dell’ultimo tramonto/ si raccolgono le reti, e con esse/ gli intrappolati affetti che al giorno fanno un canto/ cadono gli arbusti delle foglie flesse.”) Ogni segno è una metafora (“mentre il sole combatte l’indolente fioritura dei monti”). Ricorda Vallejo per le sue ornamentali visioni, dove la natura è una galleria di allegorie e spettacolo. Qui ci sono apparizioni oniriche, pulite, senza moto di lotta e collera politica. Andra racconta solo ciò che i suoi occhi hanno visto: il mondo naturale allo stato brado. Capita di incappare in riflessioni che portano a dei paragoni. Come quando se la prende col degrado delle grandi metropoli, con la frenesia della modernità. Ma sono sguizzi fuggevoli, poi nuovamente la steppa o l’ombra di un cactus dove delle persone parlano di amore e serenità (“Divieni il volto dell’oceano ondoso/ che fracassa queste gambe distese”).
Anche l’ignoto ha un suo perché, e si rigenera in un’evidenza o in una conferma del fatto che “non c’è spazio, in questa terra, per chi non conosce/ il proprio desiderio.
Il tono è leggero, sempre, pure quando parla della morte. Ci fa vedere la crudeltà di alcuni nostri gesti e l’adorazione della natura verso se stessa e il silenzio (delle onde radio).
Tutta questa verde e bianca rappresentazione, Andrea, come abbiamo già potuto vedere nelle sue opere precedenti, e che io trovo interessante perché è un embrione sperimentale che stacca i raggi alla bici della tradizione, viene declamata con un linguaggio settecentesco, arcadico e cartesiano, in un classicismo che ripropone una parola che ha il profilo di un oggetto e la nitidezza di un’opera geometrica addobbatamente vitale. Una poesia new-oraziana, tra pura ode e semplice decoro.
L’unica pecca è il caos della punteggiatura (e di alcuni errori di battitura) che rallenta la lettura e spesso confonde. Troppe virgole inutili o fuori posto. Meglio quando la lirica è sciolta e i versi si coniugano da sé in una disarticolazione verbale che da ritmo (e lo dico anche essendo un amante dei due punti, delle virgole e del resto della combriccola).

MORALE DELLA CRITICA.
Tra la “frenetica stella dai quattro/ occhi”, i “caldi conventillos”, la “nebbia che slabbra le cose” e che “l’essenza del cammino/ sta negli occhi di lei”: Sì, me gusta. Un buen trabajo.



.IL VOLO MIGRATORIO.
(Andrea Garbin)

Attraverso il riflesso, il vetro,
le imposte beccate che sui tuoi cardini
asciutti reprimevano la danza,
proiettavo l’occhio ad offuscare
un orizzonte, nebbia cava d’ore
quieta cade come strette forme
di gravide formiche forsennate;
crudi artigli di faggio che sorreggono
passeri, roteanti scrutatori
prossimi migranti nel modo d’oltre,
laggiù, noi tutti si sta sull’attenti
dando vita al corpo, al contatto,
alle fiamme rosse e le falci nere,
sulle nostre pelli contaminate
aumenta l’attrito tra vita e morte,
una nota soffusa, raggiunge l’apice:
parte così il volo migratorio
sotto gli sguardi di noi disattenti
che ancora ci chiediamo dove siamo.

venerdì 26 luglio 2013

LE ANIME DEI MORTI IN PRIMAVERA, di Liu Xiaobo (26/07/2013)

(dal libro "Elegie del Quattro giugno", Lantana Ed.)

Liu Xiaobo è una sedia vuota. Liu Xiaobo è un poeta e uno scrittore e un rivoluzionario. Liu Xiaobo ha denunciato le violenze compiute sui cittadini dal Regime Comunista in Cina. Liu Xiaobo è cinese. Liu Xiaobo ha deciso di scrivere delle elegie per commemorare i morti di piazzi Tien’an men. Liu Xiaobo era in piazza Tien’an men. Liu Xiaobo è stato incarcerato per tutto questo e per tutto questo è stato insignito del Nobel. Liu Xiaobo è colui che dice: “Anch’io ho mangiato panini al sangue umano cotti al vapore”. Liu Xiaobo ha un’ossessione: i morti che non ha potuto salvare. Liu Xiaobo lo stava facendo con la poesia, denunciando l’orrore e il silenzio degli “Innocenti”. Liu Xiaobo ha scritto ogni anno, per vent’anni, delle elegie per commemorare, ricordare le anime dei defunti. Liu Xiaobo è stato picchiato dalle forze dell’ordine per tutto questo e tutto questo non l’ha fermato. Liu Xiaobo ha scritto venti elegie che raccontano la sua storia, quello che accade in quella primavera, con tono rabbioso e metafore sporche che “hanno gustato sete di sangue”, dove la poesia è dolore, rottura della tradizione, humor macabro, canto di sdegno e memoria. Liu Xiaobo ricorda tutto e lo vuole rievocare per i vicini e i lontani che hanno rimosso il peccato o solo nascosto o accettato (la violenza del Partito). Liu Xiaobo combatte con i rimpianti e i fantasmi. Liu Xiaobo sa che sono gli incubi di tutti. Liu Xiaobo è consapevole delle difficoltà. Liu Xiaobo afferma: “Per sfuggire all’aborto/ nel ventre della madre/ il bimbo impara a suicidarsi.” Liu Xiaobo conosce i mali del suo paese e comprende il suo destino e la sorte del suo popolo. Liu Xiaobo vede sangue ovunque e vuole ripulirlo, ma dice: “Ora che la morte ha sepolto la giustizia/ ha ormai abbandonato i morti.” Liu Xiaobo è un grido in una stanza d’ospedale. Liu Xiaobo è attaccato ad una macchina che lo alimenta e gli offre la vita. Liu Xiaobo vuole staccarsi da questo aggeggio infernale. Liu Xiaobo vuole la verità, la conosce, la sputa in faccia al sistema con una forte densità lessicale, con una struttura narrativa e musicale con una simbolica potenza rappresentativa, concreta e spietata. Liu Xiaobo parla col tono dei suoi Superiori; risponde con identico affronto. Liu Xiaobo sa che “nel cervello c’è una scarpa/ che non riesce a ritrovare la strada per la memoria.” Liu Xiaobo è pero sicuro che “le anime dei defunti, coi loro sguardi/ osservano, per essere osservate/ ascoltano, per esser ascoltate/ Guardano le anime in paradiso/ per riceverne disprezzo/ Solo se disprezzate possono essere attraversate dalla luce delle tombe/ La luce delle anime respingerà l’oscurità.” Liu Xiaobo è stato condannato a undici anni di prigione per tutto questo e per tutto questo: pag. 59 poesia n.5

PS. Liu Xiaobo ha un segreto: ama profondamente sua moglie. Liu Xiaobo loda il coraggio di quella donna perseguitata per sua colpa. Liu Xiaobo gli dedica delle liriche che dicono: “Nell’inutile vastità del mattino/ tu, lontana/ custodisci le notti d’amore.” Liu Xiaobo sa di avere un àncora di salvezza e se ne vergogna perché c’è silenzio come risposta alle sue domande e si sente un peso. Per lei. Per noi.


.Le anime dei morti in primavera.
Commemorando il diciottesimo anniversario del Quattro giugno 
(LIU XIAOBO) 

-    da Elegie del Quattro giugno (Lantana Ed.) 

In primavera, sento la neve
Lo sguardo sorvegliato
sente le anime dei defunti questa notte
Son fluttuati nelle tombe i fiocchi di neve?
Portando con sé il mio sogno nella neve?
L’ombra inclinata del Monumento
proietta nelle mie pupille la notte del terrore

Quella primavera, terrorizzata dalle baionette
assunse a un tratto il volto della ferocia
La stagione gravida di vita
vomitò una gigantesca tomba
Il tepore del sole
si mutò in ghiaccio di fogna
Lacrime intrise di sangue
come neve che cade nella tempesta di sabbia

Quella primavera, si gettò sotto i cingoli dei carri armati
Pur donando ogni saggezza pur offrendo la mia nuda anima
non sono assurto alle altezze della tomba

Quella primavera, un illusione divenne per le madri eterna pena
da allora ogni primavera
è legata con ceppi e catena
Ma io so
essa è prova e lascito delle anime dei defunti

Quella primavera, il crollo delle mie speranze
Il mio esile corpo la mia debole anima
se ne andarono prima del primo fascio di luce
Temo ogni prodezza da eroe
e non ho la forza d’infierire su me stesso
Una vita rinchiusa
lotta nel vuoto
Posso solo accendere una sigaretta
afferrare saldamente ogni attimo della caduta
sopravvivere è una prova
nessuno sa
se crollerò in meno di un’ora

Ho verniciato di nero uno specchio
lo lecco finché sia lucido da riflettere di nuovo
Gli occhi resuscitati mi guardano
Cosa vedranno?
Per soddisfare un cane
non basta un osso
Per cominciare da capo
basta agire
C’è gente che vive ogni giorno nella rivolta
C’è anche chi muore per il terrore
La bomba della fede fiorisce ovunque e
ho scolpito me stesso su una pietra
poi sprofondata in fondo al mare
Memorie che non inaridiscono mai
Diventare un nichilista
e come Wang Wei e Tao Yuanming
comporre poesie in riva al ruscello
ed elemosinare un bicchiere
Il diritto d’essere un disinvolto testimone
seppellire con il Monumento il fervore
porre fine in qualche modo al dolore
ma la luce delle anime dei defunti
trapassa le mura più alte e le sbarre
penetra nel mio corpo
scioglie i sassi dei torrenti profondi
i duri spigoli si smussano un poco
Come sono fragili, minuscoli e folli i narcisisti
pur avendo sotto gli occhi la grandezza del momento
non ne sanno reggere il peso

Attingere dentro di sé quell’unico bagliore rimasto!
A illuminare per me la via

Come di fronte al mare si rivela il cielo
di fronte al cielo si rivela il mare
così di fronte alla mia anima si rivela la tua

Le anime dei defunti sono miei custodi
sconfiggono le percosse dei marosi sulla roccia
ogni stante ogni giorno ogni mese ogni anno
finché un giorno
la roccia s’impietosirà, piangerà spaccandosi
per poi riversarsi in mare
Non so dire
si siano le anime dei defunti a sublimare
quella crudele primavera
o la crudele primavera a sublimare le anime
Se fossi una sigaretta
onorerei la mia promessa bruciando
e se ardessi fino in fondo
onorerei la mia promessa diventando cenere