venerdì 15 gennaio 2016

SEMPLICEMENTE TI DICO di Basir Ahang (15/01/2016)




Immaginate di essere in Afghanistan, discendenti dell’armata Khan o dei Kushana, gli antichi abitanti che costruirono i famosi Budda di Bamiyan, ormai polvere. Potete scegliere la tradizione storica che volete. Ma avete tratti mongoli e caucasoidi, in Afghanistan siete unici, riconoscibili ovunque. Siete gli Hazara, la terza etnia più grande del paese e quella che ha subito le maggiori violenze. E ancora così. Fine della personificazione. Cambiamo il pronome personale. Loro sono perseguitati. Tra la fine dell’ottocento e i primi decenni del novecento, vennero sterminati migliaia di uomini Hazara, mentre le donne e i bambini venivano violentate e schiavizzati e le loro terre occupate – presumibilmente perché si opponevano al potere espansionistico dei Pashtum e dei Sunniti, essendo loro Sciiti; presumibilmente perché Amir Abdul Rahman era un assassino.  E’ accertato che fino agli anni settanta del secolo scorso alcuni insegnanti religiosi sunniti abbiano predicato che l’uccisione degli Hazara fosse la chiave per accedere al paradiso.1” Ancora oggi sono emarginati dalla società civile. Un po’ meno sotto Karzai, come prima col nuovo governo – ancora – Pashtun. Ora vengono anche denunciati come collaborazionisti dell’Esercito americano. Vengono perseguitati dai Taleban, non possono iscriversi alle scuole pubbliche e non possono partecipare al dibattito politico cittadino e nazionale. Uccisi, annientati, polverizzati/ in nome di un dio fanatico e geloso: il loro […]/ tuo fratello volte centotrentadue/ tua figlia volte centotrentadue/ il tuo migliore amico volte centotrentadue/ chi era il numero 120?/ cosa voleva fare da grande?/ e il numero 34?/ quali erano le sue paure e passioni più grandi?/ riuscirà mai a superare il dolore la madre dell’82?2. La matematica della sofferenza. Basir Ahang la riporta come colpi di mitragliatrice. Eliminando il verbo, come a voler togliere la voce a quel Dio che non ha radici comune (il loro). Dal soggetto si passa direttamente alla conta, al numero dei caduti. Basir è un Hazara. Rifugiato politico in Italia dopo aver conosciuto i nomi dei sequestratori talebani, impegnato per il suo rilascio, dell’inviato di Repubblica Torsello in Afghanistan. Ha subito minacce e ritorsioni. E’ dovuto fuggire. Basir è uno studioso della poesia persiana e araba antica. Le sue poesie riportano un linguaggio misto, gioca con le tradizioni più significative del suo paese. La lingua è personale, delimita i confini culturali, ma non conosce frontiere. La lingua può esser di tutti. Bisogna saperla adoperare. Una riflessione molto chiara ce la offre Oliver Sacks: <<Il linguaggio, questa invenzione squisitamente umana, può consentire quello che, in linea di principio, non dovrebbe essere possibile. Può permettere a tutti noi – perfino a chi è cieco dalla nascita – di vedere con gli occhi di un altro.>> Basir coinvolge il lettore adoperando un lessico - che Pound definirebbe “esatto, chiaro” - usato appositamente per cogliere l’attenzione. Banu! Guarda l’accetta/ un predatore crudele/ e senza pietà/ ha tagliato la gola/ delle violette ancora dischiuse3. L’uso della metafora è parte della costruzione poetica perché non sempre la realtà è possibile descriverla. Per questo, come ho già detto precedentemente, l’immaginazione ci aiuta a immagazzinare ciò che avviene nel mondo. Non è un processo solamente personale: quando diviene scrittura o filmato, quella capacità d’interpretazione diventa pubblica; e può esser condivisa. La poesia non è uno slogan o mera descrizione. Il poeta, nel suo dramma e in quello del suo popolo, non deve lasciare scampo alla cruda realtà: la prende come viene e la scombussola con la sua passione ed energia e fragilità. Come dice Noam Chomsky: <<Il linguaggio è un processo di libera creazione; le sue leggi e i suoi principi sono fissi, ma il modo in cui i principi della generazione vengono usati è libero e infinitamente vario. Anche l’interpretazione e l’uso delle parole involve un processo di libera creazione>>. Nella poesia “Esule vagabondo4”, Basir paragona la sua patria alle sue scarpe, perché le mie stesse scarpe sono tutta la mia terra/ poiché in un mondo di tale grandezza/ non c’è posto in cui mi sia dato vivere. Ascoltare la disperazione rabbiosa che evocano questi versi. Si sente tradito, non perso: si sente tradito da tutto il mondo che non lo riconosce (e che non riconosce il suo popolo). A un certo punto della poesia, l’autore scrive: la mia lingua è sconosciuta a tutti/ persino al mio vicino più prossimo/ che ogni mattina col broncio e la rabbia/ non risponde al mio saluto/ ma io ho ancora speranza di vivere. La difficoltà di farsi comprendere nel suo esilio forzato, lo spinge a lamentarsi e a sentirsi abbandonato dalla società che lo circonda, ma questo delirio non lo allontana dalla voglia di vivere, lui cerca la speranza, lui vuole dire agli altri cos’è stato e perché tutto ancora accade, perché lui cerca la speranza. E, quasi come un messìa, ad un certo punto profetizza e conclude: forse un giorno questo nodo si scioglierà/ e la prossima generazione di questa città/ dopo aver letto la storia/ e la mia sorte/ maledirà i propri padri// questa è la mia storia/ sono un esule vagabondo/ e la mia patria non son altro che le mie scarpe. Basir ha scritto una poesia di rilievo intitolata “Semplicemente ti dico”5, nella quale viene decantata tutta la sua malinconia e collera, già dai versi iniziali dove, proferendo ad una donna (mia amata), si chiede come fare a dire ciò che non si può comprendere, come l’uccisione e la violenza verso un altro uomo. Non sa da dove iniziare. Allora comincia parlando a voce della sua gente in prima persona singolare:



[…] Sinceramente ti dico

amata

che il mio amore

è astinenza di tossico

e le mie ferite

lividi di calce



L’amore traviato in chimica (tossico) e fisicità (calce), citato in questa strofa, si riferisce alla lontananza (astinenza) e alle catastrofi (le ferite) subite dal suo popolo. Si fa voce plurale nell’atto e nei sentimenti che esprime. Questa prima scatola di versi la ritroveremo altre quattro volte, con lo stesso inizio fraseologico, ma con un contenuto non più mitigato dalla titubanza condita di timida incomprensibilità, ma il discorso diventa diretto e cosparso d’immagini secche e dolorose. Già nel passo successivo incontriamo l’improvviso mutamento:



la storia di questa terra

è solo un racconto d’accanimento

di una nazione dal potere irrisa

e dal suo stesso popolo boicottata



Qui la parola è pura descrizione. Nasce unicamente per definire, in breve, la retorica che non si smonta ma che condiziona l’andamento delle persone rinchiuse/costrette al suo interno.



Sinceramente ti dico

mia amata

qui nessuno c’è per nessuno

i cuori indugiano reclusi

le bocche cucite



guarda la mia fronte

e la ferita che vi si posa

questa è la piaga dei coltelli

affilati nella mia terra



In queste due strofe l’autore enfatizza, senza mezzi termini, la sua indignazione sia verso l’indifferenza del mondo, sia verso l’accondiscendenza del suo popolo (già intravista nella strofa precedente) a questo perpetuo martirio. La sofferenza non trova scampo: il male nasce dalla propria terra: è lì che nasce l’assassino e la vittima.



Sinceramente ti dico

mia amata

che alla fine dei conti

le rovine di Kabul

i giardini recisi del nord

le fosse comuni di Yakawlang

e i brandelli di un Buddha

ormai lontano

altro non sono stati

che desideri di un popolo afflitto



Sinceramente ti dico

mia amata

che da Afshar

a Kabul

tutto è silenzio

che i seni tagliati

di madri e sorelle

giacciono perenni sui fili

elettrici della città

che dal fondo delle rovine

ancora si odono

le urla dei bambini

strappati da un grembo

mai più fecondo



Basir, in queste due scatole, parte da una visione storica e architettonica per finire a quella umana. Parla di distruzione. Non c’è angolo nel quale si trovi il passato, ma neppure il presente perché mai più fecondo. Le immagini crude non cercano pietà, ma suggestione – che attrae, avvicina – perché, se il passato è cataclisma e il presente un aborto, ricordare è rendere materia (perenne come la scrittura), non più un valore astratto, la realtà, la consistenza delle possibilità – perché con lo sguardo che non può vedere l’alba/ anche questo fa parte dell’essere umani// ed io sono di questa razza6.



Sinceramente ti dico

mia amata

qui nessuno c’è per nessuno

le vie sono infette

e la povertà scambiato

corpi per pane

infanti per rame



forse anche tu comprendi

mia amata

che in mezzo a tutta questa miseria

non si trova spazio

nemmeno fra le righe

del cappotto di lana

di un Karzai qualunque



qui il mondo è giunto al termine

e se guardi bene

mia amata

puoi leggerne la fine

fra i solchi del mio viso.



Il finale di questa poesia non tende la mano a nessuno. La prima parte entra nell’intimità della situazione del suo paese. Le illusioni hanno generato malattie e disinformazione. Il disastro è diventato quotidianità – la morte, il clientelismo, il sequestro. Scendendo troviamo la delusione verso un uomo (Karzai) che aveva tentato una breve apertura verso il popolo Hazara, ma mai effettivamente compiuta. Si finisce con un sospiro di sconforto, trasportato direttamente sul corpo dell’autore – in quel reale che solo l’esperienza, il vissuto può definire. Basir - non può - distaccarsi dagli eventi costruiti dal suo paese. Ne è partecipe, anche se lontano, non può sottrarsi. In lui permane uno spirito di coscienza non opponibile ad altro. Gioca col pessimismo storico. Non si arrende all’ingiustizia generalizzata. Usa parole semplici, nessuna pomposità deviante. Non si arrende: aspirando un tabacco troppo amaro/ mi sono detto:/ ancora due o tre minuti/ e la vita tornerà quella di prima7.

NOTE
1 dal sito hazarapeople.com / Breve storia del popolo Hazara
2 dalla poesia 132, dal libro “Sogni di Tregua” (Gilgamesh edizioni)
3 dalla poesia Banu, dal libro “Sogni di Tregua” (G.E.)
4 dal libro “Sogni di Tregua” (G.E.)
5 dal libro “Sogni di Tregua” (G.E.)
6 dalla poesia Io sono di questa razza, dal libro “Sogni di Tregua” (G.E.)
7 dalla poesia Interrogativo d’inverno, dal libro “Sogni di Tregua” (G.E.)