giovedì 20 dicembre 2012

SCHEGGE DI VITA (21/12/2012)

 
Un meccanismo molto utilizzato nei centri psichiatrici è quello dei laboratori di scrittura. Permettono al paziente di esternare - in modo spontaneo, meno diretto del confronto a tu per tu col medico, più libero e creativo (l’atto di guarigione è intrinseco all’atto artistico, cit. Frjof Capra) – emozioni, dolori, ricordi e speranze. Fondamentale in questo processo è l’utilizzo della poesia perché coglie in breve l’attimo, la pulsione cerebrale dei sentimenti che convogliano in poche parole, brevi frasi. La fantasia si apre e lascia entrare la realtà e i suoi tormenti con rapidi getti di inchiostro e pensieri sublimi o orrendi. Velocità. Come la vita. E il paziente sa che è un attimo (tutti noi lo sappiamo). E’ una scelta, come per il poeta e i suoi soliloqui.
Sembrerà strano, forse. Ma questo libro (e i centinaia di progetti, medici, psicologi) vi farà rendere conto che: 
1. La poesia è una medicina; 
2. Le medicine non servono.
I quattro autori-pazienti che scrivono le loro opere hanno ognuno la loro storia e il loro modo di esprimersi. Chi meglio, chi peggio. La bellezza sta nella semplicità di esporre un messaggio con delle immagini sane e precise, e nel coraggio di mostrarsi e condividere col mondo il loro Io.
Un’autrice-paziente dice: <<Siamo tutti portatori di disagio psichico e sentiamo la necessità di esprimere e tradurre sui fogli i nostri pensieri, paure, fantasie, emozioni. Tutto ciò per me è poesia. Anche questa, secondo me, è terapia, non fastidiosa come può essere un farmaco, un colloquio con lo psichiatra, ma certamente se non più efficace, assai più gradevole.>>
Mi capitò di sentire più o meno le stesse parole quando tenni degli incontri a dei ragazzi detenuti nel carcere minorile di Reggio Calabria. Dare loro la possibilità di ricostruire il loro percorso sotto forme creative; stimolare in loro la voglia di costruire qualcosa con le loro capacità artistiche (aiutandoli a farle emergere); offrire loro uno strumento divertente e leggero per mostrare emozioni, dolori; un modo che li gratifica e semplifica il confronto sia con la realtà vissuta e sia con quella presente. Un aiuto per progettare, anche, il futuro.
Gabriel D’Angelo ha un approccio vivido e serio alla poesia. Le tre che leggo dimostrano una padronanza (innata?) della parola e sa esprimere il messaggio che vuole offrire al lettore con calma e precisione. Le poesie trattano temi intimi e globali (come il dialogo con la morte e la Poesia). E’ una volizione voluta e ben perpetuata.
Luigi Berettini, Massimo Formenti, Valentina Lombardi, Luisa Romagnoni fissano la loro attenzione, invece, su temi naturalistici e faunistici (primavera, gatti, uccellini). Le poesie sono piccoli racconti descrittivi di momenti visti o vissuti dagl’autori-pazienti. Il ricordo della loro vita passata è impregnata e viva in quei versi. Scrivono come parlano. Destituiscono al foglio un ruolo di diario o, in senso metaforico, di quadro espressionista.
Questa breve raccolta, “Schegge di vita” (pubblicata da Albatros Edizioni, che consiglio – a tutti – di boicottare per diversi e importanti motivi, primo per tutti perché chiede cifre esorbitanti per pubblicare e perché non legge le opere – tranne pochissime – che le si inviano – altrimenti come potrebbe pubblicare oltre 100 libri l’anno?), è un essenziale dimostrazione di come l’arte e, in particolare, la poesia possano far scaturire un processo di riabilitazione e interesse personale verso problemi propri e sociali. Piccole battaglie di penna e di vita. Potremmo asserire: la cura in versi.

da “Schegge senza vita” (Albatros Ed.)
(Centro Diurno Procaccini “Il Laboratorio”)

(poesie di Gabriel D’Angelo)

.Sfida senza fine.
La morte è dietro di me dal giorno che sono nato.
Magari quelli che guardano avanti ti vogliono.
Tutti hanno paura di te,
non perché sei cattiva
ma perché nessuno ti conosce bene.
Per trovarti
è solo una questione di tempo.
Inverai il tuo Shinigami per giudicarmi
e io senza via d’uscita per scappare
cercherò un modo per non farti arrabbiare.
Vivrò con gioia questa vita fino a quel giorno
il quale nessuno può indovinare quando sia.
Qual è la realtà?
Chi sei in verità?
Solo il riflesso della luna tiepida
nell’oscurità lo sa.

.Libero.
Che cosa ti è passato per la testa quando ti sei buttato?
E’ questa la prima domanda che mi hai fatto,
in quel momento la mia mente era alla fine libera
non avevo niente da giudicare nella mia vita.
Un piccolo pensiero ai miei cari prendeva il mio cuore
però ero troppo preso dalla mia decisione.
Fare un’autocritica al momento non serve a molto.
Ho capito che Dio non giudica anche quando hai torto.

.Poesia mia.
Vengo a trovarti
vengo di persona
l’opportunità è passata
la troverai un’altra volta?
Magari me lo chiederò
cercherò di fare il mio miglior sforzo
però ho imparato che le opportunità
non si ripetono.
Adesso tocca a te farlo bene
già che per te non c’è spazio-tempo
e magari io tornerò tra le sue braccia.

venerdì 14 dicembre 2012

"Coro (I°)" da ELEGIE DEL TERRORE di Mario L. Reali (14/12/2012)

 
Una piccola Spoon River dei Gulag. Voci stantie e misere che giacevano – e giacciono -  sotto chili di neve e che nessuno conosce, nessuno ricorda. Una Russia dimenticata (occultata). Un silenzio che prosegue e che si auto-insegue per timori scaturiti dall’atrocità compiute. Noi sappiamo cos’è stato, anche se sappiamo ben poco di come e cosa è accaduto a Loro, alle vittime; chi fossero; il perché; cosa facessero prima e cosa poi hanno subito lì nei campi; quale fu il loro destino e quando e dove avvenne la loro caduta dentro una qualunque fossa comune. E di quello che si sa è troppo distante per preoccuparcene, come se il mondo e le azioni compiute dagli uomini – e le conseguenze da esse perpetuate – fossero cose che a un certo punto implodono e non tornano più. Finish. Addio nazismo! Addio Stalin e Mao!

Non è così. Tutto è sempre lì, magari in forma più lieve e con armi più etiche e idee meno pericolose, ma sempre pronti a tornare alla ribalta (basta guardare Alba Dorata in Grecia o Israele contro il popolo palestinese).
I gulag erano un posto simile ai lager. Entrambi erano campi di concentramento dove sono stati sterminati milioni di persone. L’unica differenza è che in Russia (come in Cina) tutto è sempre stato troppo grande e vasto per essere visto e accerchiato. Troppa censura. Troppo forti le relazioni politiche tra e nello scacchiere politico mondiale. Troppi recenti accadimenti infiniti (Guerra Fredda, Crollo del muro di Berlino, Putin). Troppa vergogna e paura.
Offre una post, breve ed essenziale rinascita di quelle voci il poeta Mario Reali nel suo libro “Elegie del terrore”(strano ma vero, per Passigli Poesia, casa editrice molto classica e poco propensa a pubblicare opere così, come dire, politiche. Riuscita e utile la prova compiuta con Reali; speriamo prosegua su questa strada).
Il libro cadenza tra il lirismo nerudiano e il moralismo leviniano. Ne è esempio la poesia che vi propongo (la prima del libro, sezione Coro). Molto somigliante, dal “Ricorda” e altri versi, alla poesia introduzione del libro “Se questo è un uomo” di Primo Levi, ma che si avvinghia, con i suoi “non” e metafore così materialiste e naturali, alla poetica globale di Pablo Neruda.
Le voci (gli autori che parlano con/per via delle poesie) sono alcune volte numeri, altre volte solo dei puntini di sospensione; andati persi.

C’è sconforto e ribellione in questi versi. Versi liberi, fluidi, senza punti - rallentamenti. Tutta una sequenza di scene e dialoghi a bassa voce, sussurrati nel pensiero.
Crude le immagini che scaturiscono dalle descrizioni del vissuto di questi uomini-bestie che devono sottostare ad ogni tipo di violenza:
<<Ho mangiato su un piatto candido di porcellana
le feci del capo del campo
Ridevano e si chiudevano le narici per la puzza>>, dice il n°1051 (medico)

Sono fatti autentici, dovuti, ripresi dall’autore in un viaggio a Mosca, raccontati da chi è riuscito a salvarsi, a tornare.
E’ una memoria storica. Voci che raccontano, insegnano e chiedono libertà.  Voci facili da non sentire e ascoltare.

<<Il silenzio dei vivi>>, dice il n°… (professore universitario).


.Coro (I°).
da ELEGIE DEL TERRORE
di Mario Lucrezio Reali

Ricorda come profuma questo silenzio
Non è delle betulle che vestite di bianco
tengono sulle ginocchia i morti
Non è il profumo delle foglie
che coprono di sudari la terra
E’ questo silenzio il monumento all’uomo
Sulle traversine della ferrovia
che trafigge il cuore delle aurore
i chiodi arrugginiti dal sangue
sono lapidi
Fermati qui
Sono qui le tombe del secolo che offende
e prega perché ossa di uomini
non possano più divenire strade
Ricorda come profuma questo silenzio

venerdì 7 dicembre 2012

LA MAPPA di Wislawa Szymborska (07/12/2012)


Fresco quest’ultimo lavoro di Wislawa. Ancor più delicate le immagini e la melodia fraseologica. Fluidità morale ed essenzialità. Una complicità intima e sociale con noi lettori. Nelle poche poesie che compongono il libricino (“Basta così”, pubblicato da Adelphi), incompiuto e postumo, si assapora l’aria mondiale del caso e della fragilità umana in brevi e lampanti liriche, spesso come massime in salsa umoristica.
Toni leggeri, metafore ontologiche, esempi di drammaticità globale e quotidiane riesumati in frasi comiche e fanciullesche. Ci sono storie attuali, si sente la durezza e secchezza del periodo corrente.
La realtà del presente ha il volto di una tecnologia che si confessa, nella poesia “Le confessioni della macchina che sa leggere”, dicendo: “Non so ancora, ad esempio, spiegare esattamente / gli stati definiti <<sentimenti>>”. Parole che neppure i più giovani riescono ad evocare (poeti e non). C’è il popolo: “Non menzionato / non spettacolare / Lavora alla raccolta dei rifiuti”. Oggetti, vegetariani, incontri all’aeroporto. E potresti starci giorni a cullarti di quelle immagini che evocano queste poesie. Tutte le sue poesie, possiamo dire.
Mi è piaciuta molto l’idea di inserire i dattiloscritti di Wislawa a metà libro (prima del commento finale del suo editore). Mi sono riconosciuto in quei fogli scarabocchiati, disordinati, con note e cancellature. Questo non è un problema, come vogliono farti crede: questa è la Poesia.


.La mappa.
(Wislawa Szymborska)

Piatta come il tavolo
sul quale è posata.
Sotto – nulla si muove,
né cerca uno sbocco.
Sopra – il mio fiato umano
non crea vortici d’aria
e lascia tranquilla
la sua intera superficie.

Bassopiani e vallate sono sempre verdi,
altopiani e montagne sono gialli e marrone,
oceani e mari – di un azzurro amico
sui margini sdruciti.

Qui tutto è piccolo, vicino, alla portata.
Con la punta dell’unghia posso schiacciare i vulcani,
accarezzare i poli senza guanti grossi,
posso con un’occhiata
abbracciare ogni deserto
insieme al fiume che sta lì accanto.

Segnalano le selve alcuni alberelli
tra i quali è ben difficile smarrirsi.

A est e ovest, sopra e sotto
l’equatore, un assoluto
silenzio sparso come semi,
ma in ogni seme nero
la gente vive.
Forse comuni e improvvise rovine
sono assenti in questo quadro.

I confini si intravedono appena,
quasi esitanti – esserci o non esserci?

Amo le mappe perché dicono bugie.
Perché sbarrano il passo a verità aggressive.
Perché con indulgenza e buon umore
sul tavolo mi dispongono un mondo
che non è di questo mondo.