giovedì 14 marzo 2013

MURALE di Mahmud Darwish (VII° e VIII° parte) - 15/03/2013


Articolo "DISTRUGGENDO L'ETERNITA' DEL LIBRO" (Clicca QUI)

MURALE (VII° parte)
di Mahmud Darwish


Ogni volta che mi sono rivolto alla prima
delle canzoni, ho visto sulle parole tracce di pernici.
Non sono stato un ragazzo felice
per dire: ieri è sempre più bello.
Ma il ricordo ha mani leggere che infiammano
la terra d’ardore. Il ricordo ha profumi di fiore
notturno che piange e risveglia nel sangue dell’esiliato
il bisogno di declamare:
<<Sii clivo della mia tristezza, troverò il mio tempo…>>.
Non ho bisogno che del batter d’ali di un gabbiano per
seguire gli antichi vascelli. Quanto tempo
è passato da quando abbiamo riscoperto i due gemelli:
il tempo e la morte naturale sinonimo di vita?
E continuiamo a vivere come se la morte ci avesse mancati,
noi, che siamo in grado di ricordare,
di liberarci, viandanti sulle verdi tracce
di Gilgamesh di tempo in tempo…

Polvere di compiuta genesi…
Mi spezza l’assenza come piccola giara d’acqua.
Enkidu ha dormito e non si è rialzato. Ha dormito la mia ala,
avvolta in una manciata di piume argillose.
Le mie divinità, vento pietrificato nella terra della fantasia.
Il mio braccio destro, un pezzo di legno.
Il cuore abbandonato come un pozzo senz’acqua
e l’eco selvaggia s’è fatta più ampia:
Enkidu! La mia immaginazione
non basta più per completare il viaggio. Ho bisogno
di forza perché il mio sogno sia reale.
Dammi le armi, le lucido col sale delle lacrime.
Dammi le lacrime, Enkidu, ché il morto in noi pianga
il vivo. Cosa sono? Chi dorme, ora,
Enkidu? Io o tu? Le mie divinità
sono un pugno di vento. Alzati in me con tutta
la tua umana temerarietà e sogna l’infima
eguaglianza tra le divinità del cielo e noi.
Noi, che edifichiamo la bella terra tra il
Tigri e l’Eufrate e impariamo i nomi a memoria.
Amico mio, com’è che ti sei stancato di me e mi hai abbandonato,
a che serve la nostra saggezza, senza giovinezza…
a che serve la nostra saggezza?
Mi hai abbandonato sulla soglia del labirinto, amico mio,
e mi hai ucciso. E io dovrò, da solo, intravedere il nostro
destino, e da solo reggere il mondo sulle spalle come un
toro infuriato.
Da solo esplorerò con passi incerti
la mia eternità. Devo risolvere
questo enigma, Enkidu, porterò per te la vita
finché potrò, finché ne avrò forza e voglia.
Chi sono io, da solo? Polvere di compiuta genesi attorno
a me. Affliggerò la tua ombra
nuda alle palme. Dov’è la tua ombra?
Dov’è la tua ombra, ora che i tuoi rami si sono spezzati?
     Il culmine
     dell’uomo
     è un abisso…
Sono stato ingiusto a lottare con la ferocia che è in te
per una donna che ti ha offerto il suo latte e ammansito…
E ti sei arreso all’umano, Enkidu, sii indulgente
e torna da dove sei morto, forse
troveremo risposta perché io, da solo, chi sono?
La vita individuale è incompleta e mi manca
la domanda, a chi chiederò del guado
del fiume? Alzati, dunque, o fratello del sale,
e portami. Mentre dormi, lo sai,
che stai dormendo? Alzati, dunque… basta dormire!
Muoviti, prima che i saggi mi proliferino attorno
come volpi. [Tutto è vano, coglio
la vita così com’è, instante gravido della sua linfa,
distillato sangue d’erba. Vivi per il tuo giorno, non
domani, vivi la vita adesso, in una donna
che t’ama. Vivi per il tuo copro, non per l’illusione.
E aspetta
un figlio che porterà l’anima al posto tuo.
L’eternità è rigenerazione dell’esistenza.
E tutto è vano o effimero
o effimero e vano.

Chi sono?
Il Cantico dei cantici
o la saggezza dell’Ecclesiaste?
Noi due siamo io…
Sono poeta
e re
e saggio sul bordo del pozzo
nessuna nuvola in mano
né undici astri
sopra il mio tempio
sono stretto nel mio corpo
stretto nella mia eternità,
e il mio domani
siede come una corona di polvere
sul mio scranno.

Vano, vanità delle vanità… vano,
tutto sulla terra è effimero.

I venti del nord
i venti del sud
il sole sorge in sé,
il sole tramonta in sé,
niente di nuovo, quindi
il tempo
era ieri,
vanità delle vanità.
Alti i templi,
alte le spighe,
se il cielo si abbassa, piove
se i paesi s’innalzano, si spopolano.
Ogni cosa, se supera il suo limite,
si muta un giorno nel suo contrario.
La vita sulla terra è l’ombra
di ciò che non vediamo…

Vano, vanità delle vanità… vano,
tutto sulla terra è effimero.
Millequattrocento carri
e dodicimila cavalli
portano il nome dorato
di tempo in tempo…
Ho vissuto come nessun poeta ha vissuto,
re e sapiente…
Sono invecchiato, tediato dalla gloria,
nulla mia manca,
è forse per questo che
quando s’accresce la mia sapienza
s’aggrava la mia ansia?
Che cos’è Gerusalemme e cosa il trono?
Nulla rimane nel suo stato,
c’è un tempo per nascere,
un tempo per morire,
un tempo per tacere,
un tempo per parlare,
un tempo per la guerra,
un tempo per la pace,
e un tempo per il tempo,
nulla rimane nel suo stato…
Ogni fiume sarà bevuto dal mare,
e il mare non è colmo,
nulla rimane nel suo stato,
tutti i vivi vanno alla morte,
e la morta non è colma,
nulla rimane se non il mio nome dorato
dopo di me:
<<Salomone fu>>…
Che ne faranno i morti del loro nome.
A illuminare
la mia immensa oscurità
saranno l’oro
o il Cantico dei cantici
e l’Ecclesiaste.


MURALE (VIII° parte)


Vano, vanità delle vanità… vano,
tutto sulla terra è effimero…
Come il Cristo sulle acque,
ho camminato nella mia visione. Ma sono sceso
dalla croce perché temo l’altezza e non
annuncio la resurrezione. Ho cambiato soltanto
ritmo per sentire più chiara la voce del cuore.
Agli epici le aquile, a me Il collare
della colomba, una stella abbondonata sui tetti,
una via tortuosa che conduce al porto di
Acri – né di più né di meno –
voglio rivolgere a me stesso i saluti del mattino
là dove mi sono lasciato ragazzo felice [non
ero un ragazzo fortunato, in quei giorni,
ma la distanza, come abile fabbro,
crea da semplice ferro una luna]
- Mi conosci?
ho chiesto all’ombra vicino alle mura,
una ragazza vestita di fuoco mi ha notato
e ha detto: stai parlando con me?
Ho risposto: sto parlando col mio spettro compagno,
lei ha mormorato: un altro pazzo di Layla che si aggira
tra le rovine,
e si è allontanata verso la sua bottega in fondo
al mercato vecchio…
Eravamo quaggiù. E due palme affidavano
al mare i messaggi dei poeti…
Non siamo cresciuti molto, o mio io. Il paesaggio
marino, le mura che difendono le nostre sconfitte
e il profumo dell’incenso dicono:
<<Siamo sempre quaggiù,
anche se il tempo si separa dallo spazio.
Forse non ci siamo mai separati>>.
- Mi conosci?
Il ragazzo che ho perduto ha pianto:
<<Non ci siamo separati, ma non ci incontreremmo mai>>…
Poi ha chiuso due piccole onde tra le braccia
e si è librato in alto…
Ho chiesto: chi di noi è il migrante?

Ho detto al carceriere sulla riva occidentale:
- Sei il figlio del mio vecchio carceriere?
- Sì!
- E tuo padre dov’è?
Ha detto: Mio padre è morto da anni,
caduto in depressione per il tedio della guardia.
Mi ha dato in eredità la sua missione e il suo mestiere,
e mi ha raccomandato
di proteggere la città dal tuo canto…
Ho detto: Da quando mi sorvegli e t’imprigioni
dentro di me?
Ha detto: Da quando hai scritto le tue prime canzoni.
Ho detto: Non eri ancora nato.
Ha detto: Ho il mio tempo e la mia eternità
e voglio vivere al ritmo dell’America e
del muro di Gerusalemme.
Ho detto: Sii chi sei. Ma io me ne sono andato.
E quello che ora vedi non sono io. E’ il mio fantasma.
Ha detto: Basta! Non sei il nome dell’eco
di pietra? Perciò non te ne sei andato e non sei tornato.
Sei ancora in questa cella gialla.
E allora lasciami stare!
Ho detto: Sono ancora qui?
In libertà o prigioniero senza
saperlo? E questo mare oltre le mura è il mio mare?
Ha detto: Sei il prigioniero, prigioniero
di te stesso e della nostalgia. E quello che ora vedi
non sono io. E’ il mio fantasma.
Mi sono detto: Sono vivo.
E ho detto: Se due fantasmi s’incontrano
nel deserto, si dividono la sabbia
o si contendono il monopolio della notte?

L’orologio del porto funzionava da solo.
A nessuno interessava la notte del tempo, i pescatori
di frutti di mare gettavano le loro reti e intrecciavano
le onde. Gli innamorati erano a ballare
e i sognatori carezzavano le allodole dormienti e
sognavano…
E ho detto: Se muoio mi risveglio…
Del passato ho quanto basta
ma mi manca un domani…
Marcerò sull’antico cammino
seguendo i miei passi, nell’aria di mare. Nessuna
donna mi vedrà sotto la sua finestra.
Non possedevo memoria se non quella utile
al lungo viaggio. E i giorni contenevano
quanto basta del domani. Ero più piccolo
delle mie farfalle e delle mie due fossette:
     prendi il sonno e nascondimi
     nel racconto e nella sera sentimentale,
     e insegnami la poesia, potrei imparare
     a passeggiare nei pressi di Omero
     e aggiungere alla storia la descrizione
     di Acri, la più antica tra le belle città,
     la più bella tra le antiche città. Una scatola
     di pietra. Brulicano i vivi e i morti nella sua argilla
     come api prigioniere dell’arnia,
     che scioperano contro i fiori
     e chiedono al mare una via di fuga ogni volta che
     l’assedio si stringe, e insegnami la poesia.
     Una ragazza potrebbe aver bisogno di una canzone
     per il suo lontano: <<Prendimi anche di forza,
     tieni il mio sogno
     tra le tue mani>>. Poi se ne vanno verso l’eco
     abbracciati, come se avessi accoppiato un cerbiatto
     randagio
     e una gazzella e aperto le porte della chiesa
     alle colombe… e insegnami
la poesia, colei che ha filato la camicia
di lana e atteso davanti alla porta
è più degna di parlare del mondo e della speranza
vana: il guerriero non è tornato,
o non tornerà, non sei tu colui che ho
atteso…

Come il Cristo sulle acque,
ho camminato nella mia visione. Ma sono sceso
dalla croce perché temo l’altezza e
non  annuncio la resurrezione. Ho cambiato soltanto
ritmo per sentire più chiara la voce del cuore.
Agli epici le aquile, a me Il collare
della colomba, una stella abbondonata sui tetti,
una via che conduce al porto…
Questo mare è mio
mia quest’aria umida
mia questa banchina e ciò che dei miei passi
e del mio sperma v’è sopra…
mia la vecchia fermata degl’autobus,
mio il fantasma e a chi appartiene.
Miei il vaso di rame, il versetto del Trono, la chiave,
miei la porta, i guardiani e le campane.
Mio il ferro di cavallo
volato via dalle mura…
E’ mio ciò che era mio. Mio il ritaglio del foglio strappato
al Vangelo, mio il sale delle lacrime sul
muro della casa…
E mio il mio nome, anche se ne sbagliassi la pronuncia,
mio il mio nome di cinque lettere orizzontali:
     la mim del pazzo d’amore, dell’orfano,
di chi ha compiuto il passato,
la ha’ del giardino, dell’amata,
delle duplici perplessità e delle duplici pene,
la mim dell’avventuriero, dell’esiliato forzato e
pronto alla morte annunciata,
del malato di desiderio,
la waw dell’addio, della rosa mediana, della fedeltà
alla nascita dovunque avvenga, della promessa dei
genitori,
la dal della guida, del cammino, della lacrima di
una dimora scomparsa e di un passero che
mi delizia e mi ferisce.

Mio questo mio nome…
e degli amici, ovunque siano,
e mio il mio corpo provvisorio, presente e assente…
Due metri di questa terra ora basteranno…
Per me, un metro e settantacinque centimetri…
e il resto per i fiori dai colori vaghi
che mi berranno piano,
e mio ciò che era mio: il mio ieri, e ciò che mi apparterrà,
il mio domani lontano, il ritorno dell’anima errante
come se nulla fosse stato,
come se nulla fosse stato.
Una lieve ferita sul braccio del presente assurdo…
e la Storia si burla delle sue vittime
e dei suoi errori…
Getta su di loro uno sguardo e passa…
Mio questo mare,
mia quest’aria umida
e mio il mio nome,
anche se ne sbagliassi la pronuncia sulla bara.
Quanto a me – ormai carico
di tutti i motivi per il viaggio -,
io non sono mio.
Io non sono mio.
Non sono mio…

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