giovedì 14 febbraio 2013

MURALE (II° parte) di Mahmud Darwish - 15/02/2013


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MURALE - parte II°
(Mahmud Darwish)

[...]

Dice la mia infermiera: stai meglio.
Mi inietta un sedativo: sta’ tranquillo,
degno di ciò che sognerai
tra poco…

Ho visto il mio medico francese
aprire la cella
e colpirmi col bastone,
aiutato da due sbirri di periferia.

Ho visto mio padre tornato,
dal pellegrinaggio, svenuto
per un colpo di sole dell’Higiaz
dire a una schiera di angeli che lo circondava:
spegnetemi!...

Ho visto i giovani magrebini
giocare a pallone,
e tirarmi pietre: portati via il tuo Verbo
e lasciaci nostra madre,
tu padre nostro che hai sbagliato cimitero!

Ho visto René Char
seduto con Heidegger
a due metri da me,
li ho visti bere vino.
Non cercavano la poesia…
Il dialogo era un raggio di luce,
in attesa, un domani fugace.

Ho visto i miei tre compagni singhiozzare
mentre
m’intessevo un sudario
con fili dorati.

Ho visto al-Ma’arri scacciare i critici
dal suo poema:
non sono cieco
per vedere ciò che voi vedete.
La visione è una luce che porta
al nulla… o alla pazzia.

Ho visto paesi cingermi
con braccia mattinali:
sii degno del profumo del pane.
Intònati ai fiori del marciapiede
ché il forno di tua madre
è ancora acceso
e il saluto caldo come il pane!

Verde la terra del mio poema, verde. Mi basta un solo fiume per sussurrare alla farfalla: o sorella mia. Un solo fiume per invogliare le antiche leggende a restare sull’ala del falco che sostituisce le insegne e le vette lontane, dove gli eserciti  hanno edificato per me i regni dell’oblio. Nessun popolo è più piccolo del suo poema, ma le armi dilatano le parole per i vivi e per i morti che lo abitano, le lettere lucidano la spada appesa alla cintola dell’aurora, il deserto cresce o rimpicciolisce con le canzoni.

Non basta nessuna vita per legare la mia fine al mio inizio.

I pastori hanno preso la mia storia e si sono addentrati nell’erba che ricopre le bellezze delle rovine. Con fanfare e comune prosa rimata ha vinto l’oblio, lasciandomi l’afonia del ricordo sulla pietra dell’addio, senza tornare…

Pastorali i nostri giorni, pastorali fra tribù e città. Non ho trovato una notte speciale per il tuo baldacchino incoronato dal miraggio. E mi hai detto:
     A che serve il mio nome senza di te? Chiamami, ché io ti
ho creato nell’istante in cui mi hai dato il nome e tu mi
hai uccisa quando del nome hai preso possesso… Come hai
potuto farlo? Io sono straniera in tutta questa notte,
fammi entrare nelle selve della tua passione, abbracciami,
stringimi, spargi sull’alveare il limpido miele nuziale.
Disperdimi con tutti i venti che hai e poi raccoglimi.
La notte ti consegna la sua anima, o straniero, e quando
una stella mi vedrà, saprà che la mia famiglia mi avrà
uccisa con l’acqua turchina. Dammi, perché sia mio –
mentre con le mani spezzo la giara – un presente felice.

- Hai detto qualcosa che possa cambiarmi il cammino?
- No, non ho detto niente. La mia vita era fuori da me.
Sono colui che si dice:
la mia ultima mu’allaqa è caduta dalle mie palme,
viaggio dentro di me,
assediato dai dualismi,
ma la vita è degna della sua ambiguità
e del passero…
Non sono nato per sapere che morirò, ma per amare ciò
     che l’ombra di Dio contiene,
la bellezza mi porta verso il bello,
ama il tuo amore, così libero si sé e dei suoi attributi.
Sono l’alternativa a me stesso…

Sono colui che parla a se stesso
e doma il ricordo… sei me?
Il terzo di noi ci volteggia attorno:
<<Non dimenticatemi sempre>>.
O morte! Prendici a modo nostro, potremmo
     imparare a risplendere…
Sopra di me non sole né luna,
ho lasciato la mia ombra appesa a un rovo,
il luogo m’è diventato leggero
e l’anima errante mi ha fatto volare.

Sono colui che si dice:
o ragazza, cos’ha fatto di te la passione?
Ci affina e ci porta come profumo d’autunno il vento,
sei maturata, donna mia, sulle mie grucce,
ora puoi incamminarti sulla <<via di Damasco>>,
certa della visione. Un angelo custode
e due colombe volteggiano su ciò che resta della nostra
     vita, e la terra è in festa…

La terra è la festa dei perdenti [noi siamo dei loro].
Siamo traccia del canto epico del luogo, al vento le nostre tende come piume d’una vecchia aquila. Eravamo buoni e ascetici senza i precetti del Cristo e non eravamo più forti dell’erba se non alla fine dell’estate.
     Tu sei la mia verità, io il tuo interrogativo.
     Abbiamo ereditato solo i nostri nomi.
     Tu sei il mio giardino, io la tua ombra
     al crocevia del canto epico…

Non abbiamo condiviso i preparativi delle dee, che con magia e astuzia iniziavano a intonare il canto. Portavano il luogo sulle corna di un capriolo, dal tempo del luogo a un altro tempo…

Saremmo naturali se le stelle del nostro cielo fossero state un poco più alte delle pietre del nostro pozzo, i profeti meno insistenti, se i soldati non avessero udito i nostri elogi…

Verde la terra del mio poema, verde,
i cantori la portano di tempo in tempo così com’è, fertile.
Mi dà la contemplazione di Narciso nell’acqua della sua
     immagine,
l’ombra nitida dei sinonimi,
la precisione del significato…
Mi dà la rassomiglianza nelle parole dei profeti
sui tetti della notte.
Mi dà l’asino della saggezza dimenticato sulla collina
che della sua fiaba e della sua realtà si burla…
Mi dà il simbolo pervaso di antitesi,
nessuna raffigurazione la trae dal ricordo,
non la eleva a gran luce nessuna astrazione.
Mi dà l’altro io
che annota negli annali dei cantori:
<<Se questo sogna non basta,
ho una veglia eroica sulla soglia dell’esilio…>>.
E mi dà l’eco della mia lingua sulle pareti,
che raschia il sale marino
quando un cuore ostile mi tradisce…

Più alta dell’Aghwar era la mia saggezza
quando ho detto a Satana: no. Non mettermi alla prova!
Non mi porre nei dualismi, lasciami
così come sono, incurante del racconto
     dell’Antico Testamento,
in volo verso il cielo, è quello il mio regno.
Prendi la Storia, o figlio di mio padre,
prendi la Storia… e degli istinti fa’ ciò che vuoi.

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