venerdì 22 febbraio 2013

MURALE (III° e IV° parte) di Mahmud Darwish - 22/02/2013


Articolo "DISTRUGGENDO L'ETERNITA' DEL LIBRO" (Clicca QUI)

MURALE - parte III°
(Mahmud Darwish)

Per me, la quiete. Il piccolo chicco di grano
basterà a me e al fratello mio nemico,
ché ancora non è giunta la mia ora. E non è giunto
il tempo della mietitura. Dovrò penetrare l’assenza,
fidarmi innanzi tutto del mio cuore e seguirlo
fino a Cana di Galilea. Ancora non è giunta la mia ora.
Forse c’è qualcosa in me che mi rinnega.
Forse sono un altro. Ancora non sono mature
     le piante di fichi attorno
alle vesti delle ragazze. Né mi ha generato piuma di fenice.
     Nessuno, là,
ad aspettarmi. Sono arrivato prima e arrivato dopo,
ma non ho trovato nessuno che creda ciò che vedo.
Sono colui che ha visto. E sono il lontano.
Il lontano.

Chi sei tu, o mio io?
Siamo due sulla via e nella resurrezione uno.
Portami nella luce della dissolvenza perché veda
il mio divenire nell’altra immagine di me.
Chi potrò mai essere dopo di te, o mio io? Il mio corpo
è dietro di me o davanti a te? O tu, chi sono io?
Creami come io ti ho creato, cospargimi d’olio di
mandorle, incoronami con una ghirlanda di cedro.
E portami dal letto del fiume a una bianca eternità.
Insegnami la vita a modo tuo,
provami, atomo nel mondo sublime,
aiutami nel tedio dell’eternità e sii clemente,
quando mi ferirai e dalle mie vene spunteranno le rose…

Non è giunta la nostra ora. Nessun apostolo a misurare
il tempo con una manciata dell’ultima erba. Si è compiuto
il ciclo? Nessun angelo a visitare il luogo perché i poeti
abbandonino il loro passato al bel crepuscolo e con le
mani aprano il loro domani.
Canta ancora, dunque, ma dea prediletta, o Anat,
canta il mio primo poema sulla genesi…
I narratori potrebbero trovare l’atto di nascita
del salice in un pietra d’autunno.
E i pastori il pozzo in fondo a una canzone.
A chi si sottrae ai significati
la vita potrebbe giungere improvvisa dall’ala di una
farfalla catturata da una rima. Canta, dunque, mia dea
     prediletta,
o Anat, io sono la presa e le frecce,
sono le parole, l’elogio funebre, l’appello alla preghiera
e il martire.

Non ho detto addio alle rovine. Sono stato
ciò che ero una volta soltanto.
Una volta soltanto, abbastanza per sapere come il tempo
     si laceri
quale tenda di beduine nel vento del nord,
come il luogo s’incrini e il passato indossi
i resti del tempio abbandonato. Molto mi somiglia tutto
ciò che mi circonda, e qui non mi somiglio a nulla, come
se la terra fosse angusta
per i cantori malati, discendenti dei demoni,
poveri pazzi che se fanno
un bel sogno dettano al pappagallo poesie
d’amore e dinanzi a loro si aprono confini…

E io voglio vivere…
Ho da fare sul ponte della nave.
Non per sottrarre un uccello alla nostra fame
o al mal di mare, ma per assistere al diluvio da vicino:
e poi? Cosa ne fanno gli scampati dell’antica terra?
Ricominciano la storia? Qual è l’inizio?
Quale la fine? Nessun morto è tornato per dirci la verità…


(MURALE - IV° parte)


O morte, aspettami fuori dalla terra,
aspettami nelle tue contrade finché non concludo
una fugace conversazione con ciò che resta della mia vita
vicino alla tua tenda, aspettami finché non concludo
la lettura di Tarafa ibn al.’Abd.
Gli esistenzialisti mi stimolano ad assaporare ogni istante
libertà, giustizia e vino degli dèi…
E allora, o morte! Aspetta finché non concludo
i preparativi per le esequie nella fragile primavera
dove sono nato, dove proibirò ai predicatori
di ripetere ciò che han già detto sul Paese triste
e sulla tenacia dei fichi e degli olivi dinanzi
al tempo e al suo esercito.
Dirò: versatemi nella lettera nun, dove la mia anima berrà
la sura del misericordioso. E al mio fianco
marciate silenziosi sulle tracce degl’avi
alla cadenza del flauto nella mia eternità.
Non mettete viole sulla mia tomba,
sono i fiori degli sgomenti, ricordano ai defunti la morte
prematura dell’amore.
Mettete sulla mia bara sette spighe verdi, se ne trovate,
e qualche papavero, se ne trovate.
Altrimenti, lasciate le rose di chiesa alle chiese e alle spose.
O morte, aspetta! che preparo la valigia:
spazzolino da denti, saponetta,
rasoio acqua di colonia e i vestiti.
E’ mite il clima, laggiù?
Varia nella bianca eternità
o rimane uguale in autunno e in inverno?
Basterà un solo libro per passare il tempo nel non-tempo
o avrò bisogno di una biblioteca? E in che lingua si
conversa, laggiù? Dialetto per tutti o arabo classico?

…O morte, aspetta, o morte,
finché a primavera non riacquisterò lucidità di mente
e salute, sii una cacciatrice leale
che non uccide le gazzelle accanto alla fonte.
Che il rapporto tra noi sia amichevole e sincero: a te,
ciò che ti spetta della mia vita quando sarà colma…
E a me, da te, la contemplazione degli astri:
nessuno è morto del tutto. Quelle sono anime
che hanno cambiato forma e residenza.
O morte! O ombra mia
che mi guiderai, terza dei due,
colore dell’incertezza nello smeraldo e nel topazio,
sangue di pavone, cecchina del cuore
del lupo, malattia dell’immaginazione! Siediti!
Posa gli arnesi da caccia
sotto la mia finestra e appendi alla porta di casa
il tuo pesante mazzo di chiavi! O potente,
non scrutarmi le vene per spiare il mio ultimo punto
debole. Sei più potente
del sistema sanitario, più potente del mio apparato
respiratorio, più potente del corroborante miele
e non hai bisogno – per uccidermi – della mia malattia.
Sii dunque più nobile degli insetti. Sii te stessa,
diafana, messaggio visibile all’invisibile.
Sii come l’amore, tempesta sugli alberi, e non
sederti sulle soglie come un mendicante o un esattore.
Non fare il vigile di strada.
Sii forte, lucido acciaio, e levati la maschera delle
volpi.
Sii cavalleresca, splendente, dai colpi perfetti.
Dì quel che ti pare:
<<Di significato in significato,
io giungo. La vita è fluida,
io la condenso e la definisco con il mio potere e la
     bilancia…>>
O morte, siediti e aspetta.
Prenditi un bicchiere di vino e non trattare.
Una come te non tratta con nessuno,
uno come me non si oppone alla serva dell’invisibile.
Prendi fiato… forse sei spossata da questo giorno
di guerra astrale. Chi sono io perché tu mi facci visita?
Ha tempo di esplorare il mio poema? No. Non è affar tuo.
Tu sei responsabile della parte d’argilla
dell’uomo, non delle sue opere o delle sue parole.
O morte, ti hanno sconfitta tutte le arti.
Ti hanno sconfitta i canti della Mesopotamia,
l’obelisco dell’Egizio, le tombe dei Faraoni,
hanno vinto, ed è sfuggita ai tuoi tranelli
l’eternità…
e allora fa’ di noi, fa’ di te ciò che vuoi.

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