giovedì 28 febbraio 2013

MURALE (V° parte) di Mahmud Darwish - 28/02/2013


Articolo "DISTRUGGENDO L'ETERNITA' DEL LIBRO" (Clicca QUI)

MURALE (V°parte)
di Mahmud Darwish 

E io voglio, voglio vivere…
Ho da fare sulla geografia del vulcano.
Dai giorni di Lot all’apocalisse d’Hiroshima
lo sfacelo è sfacelo. Come se vivessi
qui da sempre, ho brama d’ignoto.
L’adesso potrebbe essere più lontano,
ieri più vicino e domani il passato.
Ma io stringo forte la mano dell’adesso
perché accanto mi passi la Storia, non il tempo ciclico,
simile a scompiglio di capre montane.
Domani mi salverò dalla fretta del tempo elettronico
o dalla lentezza della mia carovana nel deserto?
Ho da fare per il mio aldilà,
come se domani non dovessi più vivere. E ho da fare
     per un giorno
sempre presente. Perciò ascolto piano,
piano il formicolio del mio cuore:
aiutami ad essere tenace. Odo il grido
della pietra prigioniera:
liberate il mio corpo. Vedo nel violino migrare le passioni
     da un paese
terreno ad uno celeste. E afferro
nella mano della femmina la mia eternità familiare:
     sono stato creato,
ho amato, sono scomparso, poi mi sono risvegliato nell’erba
sulla mia tomba, che a tratti segnala la mia presenza.
A che serve la munifica primavera
se non consola i morti e dopo di loro non completa
la gioia di vivere e lo splendore dell’oblio?
Quella è la chiave per risolvere l’enigma della poesia,
almeno della mia poesia sperimentale.
Che cos’è il sogno se non il nostro unico modo di parlare?
O morte, esita e siediti
sul cristallo dei miei giorni,
come se fossi una delle mie amiche di sempre,
come se fossi l’esiliata tra le creature.
Tu sola, l’esiliata. Non vivi la tua vita.
Che cos’è la tua vita se non la mia morte?
Tu non vivi e non muori, strappi i bambini
dalla sete di latte per il latte.
Mai sei stata bimba cullata da uccellini,
mai t’hanno coccolata angioletti
né corna di cervo distratto come han fatto con noi,
noi, ospiti della farfalla. Tu sola,
l’esiliata, o infelice, nessun uomo ti stringe
tra le braccia e divide con te la nostalgia della notte
abbreviata da parole libertine,
sinonimo di fusione della terra in noi con il cielo.
E non hai partorito un figlio che t’invoca implorante:
ti voglio bene, madre.
Tu sola, l’esiliata, regina delle regine
e nessun inno per il tuo scettro,
nessun falco sul tuo cavallo, né perle sulla tua corona.
Come puoi aggirarti così, con passo da ladra codarda,
senza guardie né coro? Tu sei tu,
la maestosa, sovrana dei morti, potente
e irriducibile condottiera dell’esercito assiro.
Allora fa’ di noi, fa’ di te ciò che vuoi.

E io voglio, voglio vivere
e dimenticarti… dimenticare la nostra lunga relazione,
non fosse che per leggere i messaggi scritti
dai cieli lontani. Ogni volta che mi sono preparato al tuo arrivo,
ti sei allontanata. Ogni volta che ho detto: allontanati,
lasciami compiere il ciclo dei due corpi nell’uno
che trabocca, sei apparsa tra me e me,
beffarda: <<Non dimenticare il nostro appuntamento…>>
- Quando? – Al culmine dell’oblio,
quando ti fiderai del mondo e devoto adorerai
il legno degli altari e i disegni sulle pareti della caverna,
dove dirai: <<Io sono le mie tracce e figlio di me stesso>>.
- Dove abbiamo appuntamento?
Mi permetti di scegliere un caffè
alla porta del mare? – No… Non avvicinarti
ai confini di Dio, figlio del peccato, figlio di Adamo!
Non sei nato per far domande, ma per agire…
- Sii una buona amica, o morte!
Sii un’idea culturale, ché io comprenda
l’essenza della tua saggezza arcana! Forse 
sei stata svelta a insegnare a Caino a tirare. Forse
più lenta ad addestrare Giobbe
alla lunga pazienza. Forse mi hai sellato un cavallo per
uccidermi sul mio cavallo. Come se,
ricordando l’oblio, la mia lingua salvasse il mio presente.
Come se fossi sempre presente, sempre in volo.
Come se, da quando ti ho conosciuta,
la mia lingua si fosse abituata alla sua fragilità sui tuoi
carri bianchi, più alti delle nubi del sonno,
più alti quando i sensi si libereranno del fardello
degli elementi. Io e te, sulla via di Dio, siamo due mistici
condannati alla visione ma che non vedono.
Vattene via, o morte, sola e incolume,
ché io, qui, nel non-qui, nel non-laggiù,
sono libero. Torna sola al tuo esilio.
Torna ai tuoi arnesi da caccia
e aspettami alla porta del mare. Prepara
il vino rosso per festeggiare il mio ritorno alla clinica
della terra malata. Non essere villana, dura di cuore!
Non verrò per burlarmi di te
o camminare sulle acque del lago a nord
dell’anima. Ma io – e già mi hai sedotto – tralascio
di concludere il mio poema: Non ho portato sul mio
 cavallo mia madre in sposa a mio padre.
Ho lasciato la porta aperta
per l’Andalusia dei cantori e ho scelto di fermarmi
al recenti dei mandorli e del melograno, scrollando
dal lungo mantello di mio nonno fili
di ragnatele. Un esercito straniero traversava le stesse
antiche strade e misurava la dimensione del tempo
con la stessa antica macchina da guerra…

O morte, è questa la Storia?
Sorella o nemica che risale
tra due abissi? La colomba potrebbe farsi il nido
e covare negli elmi di ferro,
l’assenzio crescere tra le ruote di un carro distrutto.
Cosa farà della natura la Storia, sorella o nemica,
quando la terra sposerà il cielo
e scorrerà pioggia sacra?

O morte, aspettami al caffè dei romantici
alla porta del mare.
Quando le tue frecce ha fallito il bersaglio
sono tornato soltanto per metter fuori il mio dentro
e dare il grano che mi riempiva l’anima
al merlo posato sulla mia mano e sulla mia spalla,
per dire addio alla terra che mi assorbiva come sale
     e mi spargeva
come biada al cavallo e alla gazzella. E allora aspettami
finché non concludo la mia breve visita al luogo
e al tempo
e non credermi, che io torni o non torni.
     Dico: grazie alla vita!
     Non sono stato né vivo né morto,
     tu sola eri sola, o solitaria!

Dice la mia infermiera: hai delirato
molto e gridavi: O cuore!
Cuore! Portami
in bagno…

A che vale l’anima se il corpo
è malato, se non può compiere
le sue funzioni primarie?
O cuore, cuore, restituiscimi
i passi per andare in bagno
da solo!
Ho scordato le braccia, le gambe e le ginocchia,
la mela della tentazione,
ho scordato la funzione del cuore,
il giardino di Eva all’inizio dell’eternità.
Ho scordato la funzione del mio piccolo membro,
il respiro dei polmoni.
Le parole.
Temo per la lingua.
Lasciate tutto com’è
e riportate in vita la mia lingua!

Dice la mia infermiera: hai delirato molto,
e mi rimproveravi dicendo:
non voglio tornare da nessuno,
non voglio tornare a nessun paese
dopo questa lunga assenza…
Voglio tornare soltanto
alla mia lingua nel remoto tubare.

Dice la mia infermiera:
hai delirato a lungo e mi domandavi:
la morte è ciò che mi stai facendo adesso
o è la morte della lingua?

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