Non credo si possa definire
poesia – a meno che non la si metta sul piano: versi, strofa, metrica e
metafora; anche se qui, dei quattro, abbiamo solo delle frasi distribuite in
versi; non si sente neppure la musicalità, un ritmo, una ricerca del linguaggio.
Non credo la si possa definire poesia, ma in qualche modo la raggiunge. Diciamo
che prova a mettersi di fianco e a ruggire insieme. Forse questa, di Yahya
Hassan, ha una vibrazione particolare, raggiunge prima il bersaglio e
costruisce sentimenti di odio e amore e comprensione verso dopo verso, tutt’insieme;
un casino di emozioni alla rinfusa che partono e si fermano, inizio dopo il
punto. E viceversa. La forza che scaturisce da questo libro – che non ha
titolo, ma solo il nome dell’autore a lettere cubitali bianche su sfondo nero,
semplicemente perché sempre e solo di lui (e della sua famiglia) si parla, in
prima persona, senza alcuna maschera – sta nella sua violenza: violenza della
parola, violenza del messaggio, violenza subita e violenza perpetuata. È mera
descrizione. È la storia di questo ventenne di origine palestinese che vive in
Danimarca in una continua lotta tra la vita e la morte, lo spaccio e le
cinghiate del padre, il riformatorio e le macchine derubate, i droni israeliani
e i parenti sotto le bombe. È una storia di sopravvivenza, di un mondo che non
ti riconosce per quello che sei, che ti vuole come vuole e non si rassegna alla
libertà culturale di ognuno di noi. Devi essere come lo Stato ti identifica: o
uno di noi o sei apolide, un bersaglio facile, uno da inserire in qualche
lista. Non è facile per nessuno. Yahya, se ciò che dice è tutta verità, ha
visto l’inferno a casa, nel suo paese natale che non esiste e in quello di
adozione. Yahya quando scrive parla, discorre come lo si fa davanti ad una
birra, su qualche panchina di ogni paese e confine. Le parole sono tutte in
lettera maiuscola; un grido, un attacco sonoro di chi le pronuncia; ti
costringono ad urlare. Il suo linguaggio scurrile disturba il lettore, quasi ci
offende col suo, ad esempio, cago una rosa con le spine / il culo mi
sanguina di pazzia e vendetta / sono un antisemita di merda1.
Decenni di storia e lagne spappolate da tre versi “messi in croce” se non fosse
per quello che subito dopo ci spiega: mi è entrato dentro col latte materno / con i
droni sopra gli olivi / con stelle e strisce e fosforo bianco / mi è entrato
dentro col muro del pianto / con la compassione fin dall’Olocausto / con la
compassione dei palestinesi / e io ho compassione di loro1.
C’è una frattura nell’adolescente palestinese di oggi. Non si identifica in
nessun movimento e crede che tutto sia caos e verità e salvezza mancate. Si
sente portatore di una storia moderna molto meno specifica e fatta di stupide
ripicche e violenza gratuita. Quel verso finale, e io ho compassione di loro, non è diretto ai palestinesi, ma ad
entrambi le popolazioni. La vita non può essere sempre terrore e proclamazioni
nazionalistiche prive di fondamenta. In fin dei conti sono entrambi nomadi in
cerca di casa e serenità. Effettivamente, nessuno si aspettava l’orrore
compiuto dagli Israeliani. E questo continuo allungare muri e creare e gestire
checkpoint, aggiunge pazzia al dolore e coltelli e bambini senza giocattoli e
terre deturpate e pianti. Non mi stupisce questa durezza verbale, questa
assenza e durezza contro Dio; questa indifferenza verso la vita e la sua
linearità. C’è chi lo fa con le armi, c’è chi lo fa con la politica e
l’economia, c’è chi lo fa con il corpo e la penna (o il PC). Tutto ciò che si
trova in questo libro è la continua ripetizione di giornate sempre uguali e
sempre in declino: cinque figli in fila e un padre con la mazza2,
se continui a infastidire i tuoi fratelli / ti brucio / diceva mamma con in
mano l’accendino di papà3, mi sono scopato tua moglie / ti ho
svuotato la casa di oggetti di valore / ho avvolto il televisore nel piumino di
vostro figlio / non potrei spiegare perché4. Non si
vedono vie di uscita. Le uniche porte aperte sono quelle delle celle
d’isolamento o dei ricordi non proprio pacifici né interessanti. Ma in questa
bolgia di malvagità e frenesia, ben misurata e calcolata, riusciamo a seguire
un percorso, un’autodistruzione proclamata al vento. Le parole semplici aiutano
a capire subito ogni minino particolare, ogni idea e questione. Le parolacce
aiutano a non cadere nel ridicolo della retorica. Non c’è politica, ma è
strapieno di retaggi politichesi. L’errore non è il ragazzo scalmanato, ma la
società che lo costringe ad essere un diverso, senza protezione né comprensione
– un malato da curare, da rendere docile. I testi iniziali sono molto forti e
descrivono bene la situazione che, andando avanti, si andrà sempre più ad
acutizzare. Qui entra di mezzo la ripetizione, sia testuale che tematica. Ormai
conosciamo tutto di lui. Ad un certo punto stanca. L’ultima opera, ad esempio,
detta “Poesia Lunga”, è il riassunto di tutto il libro. Fatto in dieci pagine.
Ma sono esattamente le stesse cose, le stesse situazioni e le stesse legnate,
con una prova linguistica sciolta e sperimentale. Rap misto ad un Gregory
Corso, ma senza l’intelligenza della poesia. Questo libro è una novità nel suo
campo: non ha confezioni né pretese: dice ciò che dice e lo fa senza la luna,
il bosco, l’ironia, il grottesco, la composizione, un ritmo e la ricerca
linguistica. È stonato. Vuole essere stonato. Il mondo è stonato. Può piacere
come può essere insopportabile dopo i primi tre testi. La cosa che dobbiamo
capire, noi giudici lettori, è che questa è un canto di dolore in salsa
moderna. Come la poesia non è mai stata, perché la poesia vuole armonia. E io
non credo che si possa definire una poesia senza armonia, armonia tra le parti
– il bene e il male. La poesia è uno strumento della luce e fa luce. Anche nei
contesti più duri. Ma non nel nero. Perché quando è tutto nero non serve più la
poesia: lì ci sta l’uomo e la sua Storia, in prima persona. Come Yahya. Come
questo libro che è un diario e un grido e un esempio di ciò che siamo per gli
altri: recinti che promettono libertà.
Con troppa poesia. La poesia
non ha più valore umano.
[...] MI AVETE RESO INDIPENDENTE
MI AVETE RESO IN GRADO DI FERIRE MIA MADRE
QUANDO AVETE TAGLIATO IL CORDONE OMBELICALE
NON AVRESTE MAI DOVUTO FARLO
AVREI DOVUTO ESSERE IL CANE DI MIA MADRE AL GUINZAGLIO
LA CENERE E' CIO' CHE NON E' PIU'
L'OSCURITA' E' CIO' CHE MAI SARA'
MA GUARDATE ORA COSA HA LASCIATO SATANA
UNA FIAMMA ETERNA DEL SUO INFERNO5
[...] MI AVETE RESO INDIPENDENTE
MI AVETE RESO IN GRADO DI FERIRE MIA MADRE
QUANDO AVETE TAGLIATO IL CORDONE OMBELICALE
NON AVRESTE MAI DOVUTO FARLO
AVREI DOVUTO ESSERE IL CANE DI MIA MADRE AL GUINZAGLIO
LA CENERE E' CIO' CHE NON E' PIU'
L'OSCURITA' E' CIO' CHE MAI SARA'
MA GUARDATE ORA COSA HA LASCIATO SATANA
UNA FIAMMA ETERNA DEL SUO INFERNO5
NOTE
1 dalla poesia “Ci si affligge”
2 dalla poesia “Infanzia”
3 dalla poesia “Fiori di plastica”
4 dalla poesia “Confessioni”
5 dalla poesia “Oscuramento da Jetlag”
5 dalla poesia “Oscuramento da Jetlag”