venerdì 28 ottobre 2011

da HO VISTO RAMALLAH, Murid Al-Barghuthi (28/10/2011)



Prima di giungere al quinto e ultimo Venerdì dedicato alla poesia palestinese con Mahmud Darwish, porto alla vostra attenzione non una poesia, ma un testo ripreso dal libro “Ho visto Ramallah” (Ilisso Ed.) del poeta e romanziere Murid Al-Barghuthi.
Ho avuto occasione di incontrarlo alla Fiera del Libro di Torino, quest’anno. Ho postato anche dei video su Youtube mentre si racconta/ci racconta cosa è e cosa vorrebbe essere la Palestina e il suo rapporto con “Lei” (discorso basato sul Linguaggio). Qui il link – è diviso in quattro parti: http://www.youtube.com/watch?v=ncGC-OvKdJo.
Il testo che vi riporto parla, in modo essenziale e conciso, con naturalezza e spiccata lucidità, della ghurba, dell’esilio. Vi annoto questo testo perché è “il riassunto”, un apice, dei temi trattati dai vari poeti e scrittori palestinesi, principalmente dopo quel fatidico 1967. In queste parole troviamo tutto lo sconforto e l’instabilità biologica a cui Murid è costretto a condividere col suo Sé principalmente, molto prima del mondo e della sua gente. La cosa eccezionale è come le sue parole diventano universali: lì c’è la storia dei tunisini arrivati a Lampedusa o di una famiglia di senegalesi a Roma. Lì c’è la condizione e le conseguenze dell’esule. Lì c’è quello che molte persone non vedono. E lui non gli dà colpe, perché anche per lui è stato così: “La gente crede che tocchi solamente agli altri. Quell’estate diventai lo straniero che avevo sempre creduto fosse qualcun altro.” Il libro è intenso e brilla di colori e fatalità, come l’unico ponte che unisce lui e la sua madre. Rivive il passato e una volta entrato, dopo anni e anni di attesa, scopre di non ricordare quasi più nulla di quel passato che pensava fosse il suo presente e la sua ultima dimora. E’ pieno di domande il libro. Tutte legittime. Quasi tutte senza risposta. Né ieri, né domani.
Di seguito alcuni stralci del testo che vi leggerò, con in più una sua breve poesia.

da “Ho visto Ramallah”
di Murid Al-Barghuthi

[…] Lo straniero è l’individuo costretto a rinnovare il permesso di soggiorno, a compilare moduli e comprare carte da bollo, a presentare continuamente certificati e documenti. […]
Non partecipa direttamente alle vicende oppure alla politica interna che riguarda la popolazione del luogo in cui vive, anche se è il primo a subirne le conseguenze. Non gioisce delle loro gioie, ma condivide le loro paure. […]
E’ quello che non può riassumere la sua storia in un unico racconto perché in un solo istante riesce a vivere ore intere, e ogni istante rappresenta la sua immortalità. La sua memoria resiste a qualsiasi sistematizzazione. […]
Vive i dettagli di un’altra vita che non interessa a chi gli sta attorno, e quando parla tende a nascondere quei particolari invece di svelarli. […]
Lo straniero è colui al quale le persone gentili dicono: <<Questa è la tua seconda patria e noi siamo la tua gente.>> E’ odiato perché straniero, ed è amato perché è straniero. Il secondo sentimento è più duro da sopportare del primo. […]
Si soffre di ghurba come si soffre di asma, non c’è cura, e i poeti soffrono ancora di più. La poesia in se stessa è già ghurba.

***

Un cancello tra i cancelli
nessuna chiave nelle nostre mani. Ma siamo entrati
rifugiati nella nostra nascita dalla morte estranea
rifugiati nelle case che furono nostre
e a quelle facciamo ritorno
nelle nostre gioie strappi
che le lacrime vedono solo quando stanno per scivolare via.

venerdì 21 ottobre 2011

NEI GORGHI DELLA PIENA di Fadwa Tuqan (21/10/2011)


La poetessa Tuqan è morta nel dicembre del 2003. Ha dedicato grossa parte della sua vita alla causa palestinese. Ha partecipato a numerosi incontri di poesia, ricevendo diversi premi internazionali. Nel 1960, a Roma, in un incontro sulla letteratura araba, conosce Montale (nella sua autobiografia la poetessa narra di aver dedicato una poesia a Montale per respingere cortesemente le sue attenzioni). Derivante da una famiglia conservatrice, le vengono negati gli studi. Sarà suo fratello, anch’egli poeta (Ibrahim Tuqan), il suo primo maestro.
Come la poesia di Gabka della scorsa settimana, i temi principali della situazione soffocante nel quale si ritrovano a sottostare, si rendono evidenti e palpabili. In questi versi c’è una sensibilità e sensualità serafica come se la poetessa volesse mostrarci fino a che punto tutto questo è arrivato: dentro, nella più remota parte dell’intimità. C’è quell’orto che racchiude tutti gli ultimi cento anni di Storia e conflitto. Abbiamo un mare che distrugge e sul quale si è costretti a salpare. C’è anche qualcosa che resta: dentro, dentro quegl’occhi; anch’essi destinati a fuggire.
.Nei gorghi della piena.
(Fadwa Tuqan)

Quella sera svanirono i volti
e attorno a noi svanì ogni cosa
tranne il radioso balenio azzurro
dei tuoi occhi e il richiamo
nell’azzurro irradiante
dove il mio cuore salpa
nave guidata dalle onde
e quella piena ci trascinò
verso un mare senza sponde
esteso senza limiti
né resa
narra l’onda la storia della vita –
                     e l’infinito
quando si riduce a uno sguardo
e la terra affonda nel precipizio
dei venti della marea e della pioggia.

Quella sera
si destò il mio orto,
hanno divelto lo steccato
le dita del vento
e fremeva nella danza dei venti e della pioggia
l’erba nel mio orto
                     e i fiori e i frutti.
Quella sera
svanirono i volti e ogni cosa
tranne il radioso balenio azzurro
dei tuoi occhi e il richiamo
nell’azzurro irradiante
dove il mio cuore salpa
nave guidata dalle onde.

venerdì 14 ottobre 2011

NEL DESERTO DELL'ESILIO, di G.I.Gabra (14/10/2011)



L’autore palestinese di questo Venerdì, è un poeta nato nel 1919 e che ha vissuto quasi ogni avvenimento del conflitto Isra-Palestinese ancora in corso. Gabka, dopo il 1948, è costretto ad emigrare. Si stabilisce in Iraq dove insegna pittura (oltre che poeta è pittore, romanziere, traduttore – contribuisce in maniera significativa alla rinascita culturale araba nell’ultima metà del XX secolo). Poi parte per gli Stati Uniti per una borsa di studio. Rimarrà due anni. Rientra e si stabilisce in Libano dove partecipa attivamente alla vita culturale, collaborando con le riviste libanesi Shi’r e al-Adab. Da vita al famoso movimento di poesia Tammuz insieme al poeta Adonis e Nazik al-Mala’ika e altri intellettuali della diaspora palestinese. E’ morto in Iraq nel 1994. In questa poesia che vi propongo, i temi descritti la settimana precedente risaltano in modo viscerale. C’è la “Verde Palestina” che prende le sembianze di una donna palestinese. C’è il ricordo adolescenziale visto ora come un sogno. C’è la Storia “poeticata” di ciò che è avvenuto, dove pure la morte gode di tale avvenimenti. E infine c’è  la domanda che si ricollega all’esilio e spinge verso un futuro incerto e, quasi, forse, stabilito. E’ una poesia cruda, anche se il linguaggio profila una leggerezza che rende armonica l’atrocità. Ma pur sempre cruda, la verità.

.Nel deserto dell’esilio.
(Gabra Ibrahim Gabra)

Nel deserto dell’esilio primavere s’inseguono.
Che ne è del nostro amore
quando i nostri occhi di polvere
e gelo sono colmi?

Verde Palestina terra nostra
dai fiori come pizzi sulle gonne delle donne.
Marzo adorna le colline
con peonie e narcisi
Aprile schiude nei campi
fiori e spose
Maggio è melodia
cantata al meriggiare
nelle ombre azzurre
tra gli ulivi delle valli
e nei campi maturi
di Luglio aspettiamo le promesse
e la danza chiassosa fra le masse.

Terra della nostra gioventù trascorsa
come sogno all’ombra di aranceti
tra i mandorli delle valli,
ricordaci erranti
tra le spine del deserto
erriamo tra le rocce dei monti
ricordaci ora
nel tumulto cittadino oltre i mari e i deserti,
ricordaci
di noi ricolma gli occhi
di polvere che non va via
nella rapida sosta e nell’erranza.

Annientarono i fiori sui colli attorno a noi
e su di noi abbatterono le case
sparsero i nostri resti
e innanzi a noi distesero il deserto
ecco abissi avvolgersi nelle proprie viscere
e ombre azzurre fendersi
in spine rosse chine
su corpi – preda per falchi e sparvieri.

Dalle tue cime gli angeli cantano ai pastori
melodie di gioia e pace all’umanità?
Solo la morte rise quando vide
nel ventre delle bestie
costole umane,
tra i colpi dei proiettili,
si mise a ballare una danza gioiosa
in testa alle prefiche.

Terra di smeraldo –
ma nel deserto dell’esilio
primavere s’inseguono
sul nostro volto solo polvere
Che ne è del nostro amore
quando occhi e bocche di polvere e gelo son colmi?

venerdì 7 ottobre 2011

COLPO DI SOLE di M. Zakariya (07/10/2011)



Da oggi, per tre o cinque venerdì (è un dilemma che spero di risolvere a breve), dedicherò uno spazio particolare ai poeti palestinesi. Oltre alla questione in seno all’ONU riguardo al riconoscimento di uno Stato Palestinese, voglio portare la vostra attenzione verso una cultura e una letteratura che narra di un sogno palpabile, vissuto nella vita quotidiana, esternamente, senza vittimismo o sconforto. Ma solo cruda realtà, impastata di simbolismo e conflittualità biologica. 

La poesia palestinese è un canto di denuncia, di malinconia passione. Nei versi c’è romanticismo versp quella donna, la Palestina, che si lascia vedere e mai toccare. Che la si vede smembrare. Per questo i versi diventano di medesima pasta. Frammenti. Spezzettati, convogliano nello stesso abisso: nel ricordo, nel dolore di avere un luogo di nascita, ma nessuna residenza o bandiera che lo afferma. Negl’ultimi cinquant’anni la poesia palestinese è molto mutata. Inizialmente tradizionale negl’anni venti, con l’arrivo degli inglesi e degli ebrei, la cultura comincia a mutare. Cominciano i primi esili e i primi contatti con la cultura europea e delle coste del nord africa (dove molti poeti e scrittori, tutt’ora risiedono). Si abbandona la metrica, il verso comincia a sfaldarsi, a perdere pure la punteggiatura come a dire che il dialogo non ha più misura; nessun appiglio. Nessuna pausa. Dopo la nakba, l’esilio diviene discorso fisso. La Palestina è la madre uccisa, la moglie rapita, la figlia stuprata. Da fuori non resta che invocarla e preservarla. Cantandola. Denunciando.

Il primo poeta che vi leggo è Muhammad Zakariya. Nato nel 1951, dopo aver studiato fuori e lavorato a Beirut, Amman e Damasco, ora vive a Ramallah, dove dirige il Ministero della Cultura Palestinese - oltre che giornalista e insegnate di Scrittura Creativa.
I suoi versi, come potete bene vedere, sembrano brevi aforismi. Due righe e punto. Via ad un’altra storia. Questo è errato. Come ho detto precedentemente, la confusione e lo scombussolamento, il taglio duro e secco, la non linearità del testo è una tendenza rilevante nel sentimento e nella letteratura palestinese (vale anche per molti romanzieri). Questo è l’unico modo per dimostrare la verità: scrivere nello stato d’animo nel quale si vive. Nel modo più naturale e con parole pratiche e ben memorizzabili. Ci mettono il cuore. (Quello che un poeta dovrebbe far sempre.)
Questa poesia e le prossime, sono riprese dall’antologia della poesia palestinese “In un mondo senza cielo”, Giunti editore. Curata da Francesca Maria Corrao.

.Colpo di sole.
(Muhammad Zakariya)

Siamo nati da un colpo di sole
da un colpo di falce nell’aria
da un colpo di corno sulla pietra.

Abbiamo gettato la placenta ai cani.
Abbiamo gettato l’anima alla solitudine.

Ci siamo alzati su ginocchia spezzate
alzati col timore di non alzarsi mai.

Come misere donne abbiamo cucito
le nostre labbra sul silenzio.

Impuri eravamo alla preghiera dell’alba
impuri alla rosa
ai ricordi d’infanzia.

Sabbia è la nostra messe
sabbia il foraggio dei nostri cavalli.

Lì siamo saliti col fiato corto
col fiato corto ne siamo discesi.

Non v’è traccia dei nostri nomi
solo lettere assenti dal dizionario
non v’è traccia dei nostri padri
solo il silenzio dei cani alla porta.

Siamo aggrappati ai lacci delle scarpe
alle nostre ciglia
alla coda delle nostre comete.

Ci siamo accucciati come cani alla porta
disperati davanti alla rosa.

La rosa sgozzata nel sacrificio di mezzogiorno.

Era sparsa ovunque la nostra farina
il dolore un anello di ferro alle dita.

Dacci il tempo di riconoscere le nostre ombre
di farci crescere gli zoccoli ai piedi.

Sopra noi c’è una grande campana
ampia, ostinata, ci fa smarrire.

Preghiamo che taccia l’immensa campana
sulle labbra dei nostri morti.

Prendici per mano
per la vita, per i fianchi
siamo fratelli di cenere e fuoco.

Sono queste dita bagnate a sentire il vento
queste dita ferite dalle nostre domande infinite.

Ci siamo fatti gioco dei nostri nomi
della nudità dei nostri bottoni,
davanti a noi abbiamo spinto preghiere come porci.

Abbiamo legato agli asini alle gambe dei bambini
legato l’autunno all’estate per calmare i brividi.

Chiamaci da dietro le nostre stanze
chiamaci con vece di scandalo
che ci umili e ci denudi
una voce che strappi il legno e i giunchi.

Guidaci nel pregare oltre il dovere
perché i nostri animi siano retti.

Amari semi di coloquintide a pranzo
e pietre a cene
e il silenzio ci scorre tra le gambe come mestruo.

Preghiamo per spezzare i calcoli dei reni
preghiamo per spezzare il pane della cena.

Non sono invulnerabili le pietre
né la rosa:
il tuono sovrasta ogni cosa.

Siamo nati da labbra rovesciate
da palpebre rovesciate
da un colpo di corno sulla pietra.