mercoledì 28 dicembre 2011

GRIDO VERSO ROMA di Federico Garcia Lorca (28/12/2011)



.Grido verso Roma.
(Dalla torre del Chrysler Building)
(F.G. Lorca)

Mele leggermente ferite
da sottili spadini d'argento,
nuvole strappate da una mano di corallo
che porta sul dorso una mandorla di fuoco,
pesci d'arsenico come squali,
squali come gocce di pianto per accecare una folla,
rose che feriscono
e aghi installati nei tubi del sangue,
mondi nemici e amori ricoperti di vermi
cadranno su di te. Cadranno sulla gran cupola
che unge d'olio le lingue militari
dove un uomo orina in una splendente colomba
e sputa carbone masticato
circondato da migliaia di campanelli.

Perché non c'è più chi divida il pane e il vino
né chi coltivi erbe nella bocca del morto
né chi apra i lini del riposo   
né chi pianga per le ferite degli elefanti.
Non c'è altro che un milione di fabbri
che forgiano catene per i bambini che verranno.
Non c'è che un milione di falegnami
che fanno bare senza croce.
Non c'è che un affollarsi di lamenti
che aprono le vesti in attesa del proiettile.
L'uomo che disprezza la colomba doveva parlare,
doveva gridare nudo fra le colonne
e farsi un'iniezione per prendere la lebbra
e piangere un pianto così terribile
da fondere i suoi anelli e i suoi telefoni di diamante.
Ma l'uomo vestito di bianco
ignora il mistero della spiga,
ignora il gemito della partoriente,
ignora che Cristo può dare ancora acqua,
ignora che la moneta brucia il bacio prodigioso
e dà il sangue dell'agnello al becco idiota del fagiano.

I maestri indicano ai bambini
una luce meravigliosa che viene dal monte:
ma ciò che giunge è un insieme di cloache
dove gridano le oscure ninfe del colera.
I maestri indicano con devozione le enormi cupole suffumicate
ma sotto le statue non c'è amore,
non c'è amore sotto gli occhi di cristallo definitivo.

L'amore sta nelle carni lacerate dalle sete,
nella minuscola capanna che lotta con l'inondazione;
l'amore sta nei fossi dove lottano le serpi della fame
nel triste mare che culla i cadaveri dei gabbiani
e nello scurissimo bacio pungente sotto i guanciali.

Ma il vecchio dalle mani trasparenti
dirà: amore, amore, amore,
acclamato da milioni di moribondi;
dirà: amore, amore, amore,
nel tessuto tremante di tenerezza;
dirà: pace, pace, pace,
fra il brivido di coltelli e meloni di dinamite;
dirà: amore, amore, amore,
finché le labbra gli diventeranno d'argento.

Intanto, intanto, ahi! intanto
i negri che portano via le sputacchiere,
i ragazzi che tremano sotto il pallido terrore dei direttori,
le donne affogate in olii minerali,
la folla di martello, di violino o di nube,
dovrà gridare finché le rompano la testa contro il muro,
dovrà gridare di fronte alle cupole,
dovrà gridare pazza di fuoco,
dovrà gridare pazza di neve,
dovrà gridare con la testa piena di escremento,
dovrà gridare come tutte le notti insieme,
dovrà gridare con voce così straziata
finché le città non tremino come bambine
e spezzino le prigioni dell'olio e della musica.
Perché vogliamo il nostro pane quotidiano,
fiore d'ontano e perenne tenerezza sgranata,
perché vogliamo che si compia la volontà della Terra
che dà i suoi frutti per tutti.

venerdì 9 dicembre 2011

da MONOGRAMMA: .IV. di Odisseas Elitis (09/12/2011)


Nel 1979 gli viene conferito il premio Nobel. Odisseas è uno dei poeti più importanti della poesia contemporanea greca. La sua poetica è molto elastica, cammina tra la tradizione e la sperimentazione. Molte figure arcaiche e mistiche risaltano nei suoi versi. Gioca molto con i ritornelli (come vedrete in questa poesia). Le metafore sono la rivelazione della realtà che Odisseas vive e percepisce. Onirici e musicali, le parole fluttuano tra immagini concrete e plastiche che si insinuano nei sensi e nelle ossa.
L’analogia è l’elemento principale di tutta la sua poesia. Così lo e si esprime: “Per analogia intendo il fatto che una linea tracciata da un pittore non è riferibile soltanto a se stessa, ma ha un’analogia nel mondo dei valori spirituali. Che una montagna si possa vedere in una o in un’altra forma, deve avere un’influenza sullo spirito umano, deve avere una sua analogia.
La poesia che vi leggo è la IV del libro Monogramma, che prendo dal testo “E’ ancora presto”, un’antologia di Elitis pubblicata da Donzelli.
La caratteristica che risalta è il ritornello composto dalla parola “mi senti”. Anche con la mancanza della punteggiatura, leggendo, si percepisce la presenza di un punto interrogativo e di una voce che da lamento, sale sale, e diventa grido. Implora una risposta che arriva solo nell’ultimo verso; data dallo stesso autore. Che in sé non è una risposta, ma un’affermazione. Un’enorme e semplice costatazione.

da Monogramma: .IV.
(Odisseas Elitis)

E’ ancora presto in questo mondo, mi senti
i mostri non sono stati domati, mi senti
il mio sangue perduto e l’affilato, mi senti
coltello
come ariete corre nei cieli
e delle stelle spezza i rami, mi senti
sono io, mi senti
ti amo, mi senti
ti prendo per mano, ti conduco, ti metto
la bianca veste nuziale di Ofelia, mi senti
dove mi lasci, dove vai e chi, mi senti

ti tiene per mano lassù tra i diluvi

Le gigantesche liane e la lava dei vulcani
Verrà giorno, mi senti
che ci seppelliranno e poi, dopo migliaia di anni, mi senti
non saremo che pietre lucenti, mi senti
dove si rifrangerà l’indifferenza, mi senti
degli uomini
e in migliaia di pezzi ci butterà, mi senti

Nell’acqua ad uno ad uno, mi senti
conto i miei amari ciottoli, mi senti
e il tempo è una grande chiesa, mi senti
dove le icone a volte, mi senti
dei Santi
piangono lacrime vere, mi senti
Le campane aprono in alto, mi senti
un profondo valico per lasciarmi passare
Gli angeli aspettano con ceri e salmi funebri
Non me ne andrò via di qui, mi senti
o insieme tutti e due o nessuno, mi senti

Questo fiore della tempesta e, mi senti
dell’amore
una volta per sempre lo cogliemmo, mi senti
e non potrà più fiorire, mi senti
su altri pianeti o stelle, mi senti
Non c’è la terra e neppure il vento
lo stesso vento che toccammo, mi senti

E non un giardiniere che ci sia riuscito, mi senti

Da inverni e bore simili, mi senti
spuntare un fiore, solo noi, mi senti
in mezzo al mare
con la volontà dell’amore, mi senti
Alzammo intera tutta un’isola, mi senti
con grotte, promontori e rupi in fiore
Senti, senti
chi parla alle acque e chi piange – senti?
Chi cerca l’altro, chi grida – senti?
Sono io che grido e io che piango, mi senti
Ti amo, ti amo, mi senti.

venerdì 25 novembre 2011

CROCIFISSO NEL PUGNO D'UN MORTO - Charles Bukowski (25/11/2011)


Una delle cose che più ammiro di Bukowski è quella della freddezza. Cioè la capicità di dire e scrivere "fottendosene" di ciò che gli sta intorno, ma - comunque - facendolo rientrare in tutto quello che ha detto e scritto, come denuncia o scherno. Forse la sua intera vita è una grande denuncia.
La poesia che vi leggo è un'insieme di piccoli frammenti che seguono un corso biologico e vitale. E' una presa di coscienza; il mondo visto con occhi lucidi e critici. C'è molta musicalità nel testo, che si abbraccia ad una tristezza quasi volgare e imprescindibile; mai annullabile.
Tutto passa e cambia. E, molto spesso, siamo sempre in ritardo e confusi. Forse volontariamente o forse perché nessuno ha mai tanta voglia combattere.


Crocifisso nel pugno d'un morto
C. Bukowski

sì, cominciano tra i salici, direi,
i monti inamidati cominciano tra i salici
e vanno via così senza badare
né ai puma né alle pesche
chissà come
questi monti somigliano a una vecchia
con poca memoria e una sporta per la spesa.
siamo in una conca. ecco
l'idea. giù nella sabbia e tra i vicoli,
questa terra trafitta, percossa, divisa,
stretta come un crocifisso nel pugno d'un morto,
questa terra comprata, rivenduta, ricomprata
e ancora venduta, le guerre finite da un pezzo,
tornati gli spagnoli nella Spagna lontana
sempre nel bussolotto, e adesso
agenti immobiliari, lottizzatori, proprietari terrieri, costruttori
di autostrade che discutono. questa è la loro terra
e io ci cammino sopra, ci vivo per un po'
qui dalle parti di Hollywood vedo giovani nelle stanze
che ascoltano vitree registrazioni
e penso anche ai vecchi stanchi di musica
stanchi di tutto, e la morte come suicidio
credo sia qualche volta volontaria, e per avere un pungo d'appoggio
qui sulla terra è meglio ritornare
al Grand Central Market, vedere le vecchie messicane,
i poveri... sono certo che hai visto queste stesse donne molti anni prima
discutere
con gli stessi giovani impiegati giapponesi
spiritosi, intelligenti e dorati
tra i loro mucchi di arance, di mele,
avocado, pomodori, cetrioli -
e sai che aspetto hanno, hanno davvero un bellissimo aspetto
ti sembra che potresti mangiarteli tutti
accendere un sigaro e, col fumo disfarti del mondo cattivo.
poi è meglio tornare nei bar, gli stessi bar
lignei, verdi, spietati, stantii
col giovane poliziotto di passaggio
terrorizzato e in cerca di guai
e la birra è sempre cattiva
ha un sapore che si confonde già col vomito
e la putrefazione, devi farti forza tra le ombre
per ignorarlo, ignorare i poveri e te stesso
e la borsa della spesa che tieni tra le gambe
bella piena di avocado, arance e pesce fresco
e bottiglie di vino, chi ha bisogno di un inverno
come quelli di Ford Lauderdale?
25 anni fa c'era sempre una battona
con una membrana su un occhio, che era troppo grassa
e faceva campanule d'argento con la stagnola
delle sigarette. allora il sole sembrava più caldo
anche se forse non era affatto vero
e tu porti fuori la borsa
della spesa e cammini per la strada
e la birra verde ti resta là sospesa
proprio sopra lo stomaco come
uno scialle corto e vergognoso,
e ti guardi intorno e non vedi
più
vecchi.