venerdì 29 marzo 2013

"DODICI" di Francesco Teriaca (29/03/2013)



Un simposio di lucida aritmetica verbale e di sadiche visioni cuneiformi, oscillanti tra l’iperrealismo biologico e la metafora dottrinale e fantastica – binomio necessario per parafrasare in versi la vita e mettere l’arte, come esperienza umana, al servizio degl’altri.
Reale ed ideale: così inizia ed afferma la Premessa del libro “DODICI” di Francesco Teriaca (500g Edizioni); una sinossi che spiega in dettaglio il pensiero che aleggerà e si strutturerà nelle poesie e nei dipinti che affiancano ognuna di esse (opere di Lorenzo Pasqua).
La Premessa ci annuncia che il libretto sarà un’operazione di crudo realismo misurato da una bilancia che contrappone lo sfondo cupo ambientale e quello cupo sentimentale, incentrato su un Io malsano – per via di quel nefasto ambiente nel quale circumnavighiamo – che non si sofferma mai sul proprio essere passato, ma su quello presente, in una funzione che, per ansia e nevrosi, si colloca al di fuori del tempo.
In poche parole: diventa cronista distante di un evoluzione oscura che comunque lo coinvolge e lo deteriora.
In poche parole: Non poesia, dunque, ma bisogno intimo e nevrotico di universali situazioni umane.
Questa Premessa intercede l’Introduzione che è, in fin dei conti, la rappresentazione poetica del discorso precedente.
Qui troviamo alcuni schizzi di sarcasmo lirico che non troveremo più nelle altre poesie (“Sono una cartoleria ambulante.” […] “Ho provato con la bibbia sul balcone / ma la parabola non prende.”).
Da questo punto in poi, l’autore si immette su un’autostrada che, a senso unico, conduce in un posto tetro e pieno di provette e cervelli in salamoia; un luogo umido e freddo che solo Teriaca può gestire e professare all’uomo perché sono quei suoi occhi a distanza ravvicinata a poterlo vedere e conferire. Un po’ come i mondi paralleli dei personaggi di Murakami. Un po’ troppo meccanico e assolutista.
Un’altra verità confessata in questa Introduzione è il suo borseggio – con maestria – di frasi di testi altrui (“Copio? Non ne dubito. / Ma non saccheggio”).
Infine, l’Introduzione, si conclude con quel moralismo tipico da politico in campagna elettorale o da animale chiuso in gabbia che ritroveremo in ogni singola poesia – come una malattia incurabile dell’anima: “E più mi sintonizzo con i malesseri del mondo / e più, di quel che scrivo, io mi raccapriccio”.

Il moralismo si manifesta con un narcisistico pianto e supplizio al quale Teriaca sembra conviverci senza interferire. Pone domande. Lo conosce e lo espone.
L’Io nietzschiano col quale l’autore si presenta nelle sue poesie, si traveste, a tratti, da equilibrista che oscilla e passeggia tra due confini: quello del dolore e quello della possessione – tra paranoie kafkiane e situazioni orwelliane.
Il dolore è un miscuglio di immagini tecniche e oniriche di una terra violenta/violentata dove tutto è splatter, nero e bieco (“Nella giungla di asfalto e amianto / le piante si irrorano di acido pianto, / un continuo frastuono di tamburi battenti / cadenza il ritmo di vetture viventi, / mezzi pubblici e grattacieli aziendali / delimitano il varco di padroni e manovali”).
La possessione si costituisce invece nel disarmo, nell’impossibilità di prendere per mano quel dolore e cambiarlo, modificarlo, sostituirlo con qualcosa di meglio, di buono. Il problema è nella mancanza di mezzi per poter realizzare tale mutamento.
Nelle poesie di Teriaca il terreno sul quale si aggira è sconfinato, ma assillato da tormento e cupidigia che l’autore non sembra saper governare.
Questo lo si comprende anche dalle poesie d’amore che son proposte con un fare così duro e plastico che l’immagine che mi ha suscitata è stata al quanto bislacca: un tizio che cerca di portarsi a letto un computer mentre a fianco una donna seziona un uomo conficcando il cuore, i reni, i polmoni dentro a quella cassa di microchip sperando, in questo modo, di dargli vita.
La secchezza del verbo rende monca la musicalità. E’ una pecca di Teriaca visibile in quasi tutte le poesie perché la ricerca di parole obsolete e da sala operatoria universitaria, troncano l’andatura ritmica della lingua. Non c’è studio in questo. Tutto è lasciato alla corretta ortografia della frase scritta (“Non ho uno stile, una metrica, […]). Quindi la musicalità muore – forse era questo il suo intento e forse era questo il senso intrinseco e duplice del verso “Sono ossessionato dalla musicalità”; non lo so. Comunque la chitarra del ritmo rinasce solo dove i versi sono in rima baciata.
Accade in forma completa ed esaustiva nella II e VIII poesia. Ma parliamo di quest'ultima.
Sembra un’omelia, ma ha una sua forza empirica – stile messa – anche grazie alle sue metafore longitudinali scattate in ogni verso – stile funzione pasquale atea (“Rosola la carne sull’altare votivo, / nel sangue si lavano le colpe da espiare”).
Qui, il ritmo secco si rallegra con rime che danno alito e battito – quindi sentimento – alla poesia. Danno aria a questi testi così carichi di architetture, filosofia e professori accademici.
Capita che la prosa sia talmente ripetitivamente ermetica e vittimista da risultare sfiancante. E’ come se decretando i propri “peccati” al pubblico lettore giudizioso, si potessero espiare. Manca la storia; troppo arcaica e segreta la lirica. Niente pathos.  Un Io eccesivo e logorante.
La sperimentazione si ferma alla pura parola, senza innescare nessuna rivoluzione nel linguaggio e nella struttura poetica.
Il messaggio c’è. E’ assente la voce per declamarlo.

L’ho trovato un buon libro, con diversi aspetti da migliorare e calibrare. Principalmente bisogna scovare quella voce e farsi carico di quel che si preconizza.
Come scrisse Neruda nella sua poesia Canto a Stalingrado: “Io metto la mia anima dove voglio. […]/ La mia voce è stata coi tuoi grandi morti / contro le tue stesse mura maciullate, / la mia voce suonò come campana e vento / vedendoti morire, Stalingrado.
Metaforicamente parlando. 


.II.
(da “DODICI”
di Francesco Teriaca)


Nella giungla di asfalto e amianto
il cielo si avvolge di torbido ammanto,
la ruggine afosa del primo sole mattiniero
fodera i polmoni di un catrame cinereo,
l’acrilico greve raschia la cute squamata,
gli occhi s’infiammano all’aria malata.

Nella giungla di asfalto e amianto
i giardini pensili scompaiono d’incanto,
ciminiere smorte di opifici suburbani
emanano effluvi di gas butani,
adombrano l’aria d’argentea rugiada,
deturpano i condotti fino alla strada.

Nella giungla di asfalto e amianto
le piante si irrorano di acido pianto,
un continuo frastuono di tamburi battenti
cadenza il ritmo di vetture viventi,
mezzi pubblici e grattacieli aziendali
delimitano il varco di padroni e manovali.

Nella giungla di amianto e asfalto
in fila marciano sull’area in appalto,
ortogonali passano fissando dinnanzi
come topi tra il pattume in cerca di avanzi,
sono locuste ghiotte di denaro avariato
che idolatrano feticci quotati al mercato.

Nella giungla di amianto e asfalto
il grano degusta di pece e il bitume di malto,
bipedi femminei passeggiano in mostra
come bestie al guinzaglio dentro una giostra,
dalle fogne esala un odore di guano,
barboni ubriachi si scaldano invano:
e sul freddo ciglio di una banchina in cemento,
un corpo esanime chiede un solo momento.

venerdì 22 marzo 2013

POESIE di Sandro Penna (22/03/2013)


Ho letto tutte le poesie di Sandro Penna (“POESIE”, Garzanti – Gli elefanti) in quattro ore, suddivise in tre giorni consecutivi; da sabato a lunedì. Sono state quattro ore intense e pragmatiche perché ero allibito dalla capacità e dalla caparbietà di questo autore di scrivere sempre delle stesse cose, con medesimi termini e medesime situazioni, in cinquant’anni di scrittura, senza mai evolversi, crescere; senza mai sperimentare nuovi percorsi; e, soprattutto, senza annoiarsi mai.
L’ho fatto io per lui.
In molti hanno parlato bene della poesia di Sandro Penna (uno tra i tanti: Pier Paolo Pasolini). Per l’epoca sarà stato un gladiatore possente contro i leoni della fermezza estatica del sonetto e capostipite nel tema scabroso del quale trattava ossessivamente in ogni sua poesia – che è un epigrafe composta da pochi versi, spesso aforistico e rimato.
Sarà l’epoca, ripeto, ma per me è stato molto sconfortante e lesivo (leggevo l’opera omnia tra le 6:30 e le 8:30 del mattino) essere sommerso da così tanta “adolescenziale” perversione (parliamo di pederastia) e così tanta banalità stilistica e linguistica. Sicuramente è stata la ripetizione ridondante di parole e circostanze desiderate (e, a quanto riportato nelle poesie, ottenute) che mi hanno debilitato psicologicamente.

Quando ho finito il libro ho capito che non era necessario sbattersi tanto, bastava una sola poesia per racchiudere l’intero pensiero di Penna, una qualsiasi, senza tanta concentrazione. Tipo: “Nella luce lunare apparve al sommo
del muro del mio harem un ragazzo.
Echeggiò un colpo e fu silenzio intorno.
Non declinare più luna di marzo.”
Non so se fosse lo scopo dell’autore quello di sconfortare il lettore e di dare determinate impressioni sulla sua opera e sulla sua  vita, certamente mi ha spinto a questi tre punti conclusivi:
1. Segaiolo (“Immobile e perduto, lentamente / animava nel buio la mano.”);
2. Filosofico (“Non c’è più quella grazia fulminante / ma il soffio di un qualcosa che verrà.”);
3. Pittoresco (“Quando gli aspetti del mondo lucevano/ entro il leggero sole d’ottobre, / felici e crudeli era bello / sognare.”).

La lirica di Penna si alterna tra il taglio poetico del Pascoli – dove il Fanciullino non è visto come un tramite ideologico della vita, ma come un puro atto di possessione sessuale e di amore -, e quello D’Annunziano – per le visioni mistiche e l’ambiente figurato nel quale si stagliano i personaggi e le loro azioni.
Il suo minimalismo stilistico ha un che di simile ai 140 caratteri di un tweet. E’ stato un precursore della moda degli sms e del linguaggio tipico degli internauti e di internet. Gliene diamo merito (anche se per qualcuno, tipo il sottoscritto che non riesce proprio a stare dietro e dentro a questi mitici 140 caratteri, può essere un madornale peccato come il seitan per i carnivori).
A tratti la poesia di Penna è composta da un solo verso. E’ messaggio sfuggente, pura descrizione di un momento quotidiano o di una riflessione arrivata e colta all’istante. Cinque parole. Un cripto segnale. Che solo lui può svelare. Io ho messo dei punti interrogativi e dei puntini di sospensione vicino a questi aforismi. Non mi hanno coinvolto.

Infine, leggendo tutta la sua opera omnia, mi è sembrato di trovarmi dentro a un piccolo paese dei balocchi dove il tempo è sempre scandagliato dal binomio alba-tramonto (che sono anche gli stati d’animo che si intercedono nelle poesie: gioia e dolore) e dove lo spazio e le persone che si trovano o che si ritrovano dentro – come i lettori – diventano di una pasta indefinita e ciclica, governati da una mano che assoggetta regole e sentimenti, senza cattiveria alcuna, ma con adolescenziale  pressione e tormento.
Non sto parlando di finzione, ma di illusione.

Per concludere,  ci troviamo dinnanzi a un autore che ha contornato la sua poesia di metafore sessuali e che ha parlato di sé con sé. Senza sguardi oltre l’orizzonte del suo “harem” e senza mai cedere al virtuosismo del mercato e della casta letteraria del momento. Un modernista che diventa, autonomamente, tradizionalista e statico già dopo la prima poesia scritta.

Voto: 3--


POESIE
di Sandro Penna

*
Andavo già piangendo fra la gente
il mio perduto seme senza amore.
Raccolse le mie lacrime un pastore
leggero, attento, intatto, indifferente.

*
Il fanciullo che giuoca a me vicino
è simile al mio cuore
                     e m’è lontano.

*
Variante

Oh voglia di baciare un bel ragazzo.
Sole con luna, mare con foreste.
Tutt’insieme baciare in una bocca.

Ma il fanciullo non sa. Corre a una porta
di triste luce. E la sua bocca è morta.

*
E’ il nobile sesso. E poi, di questo,
solo un’età (nobile, sì, ma fresco!).
Di questa solo alcuni rari esemplari.
E infine, e poi… di te, ma tanto tanto
una sola immagine mi è cara.

*
Nella luce lunare apparve al sommo
del muro del mio harem un ragazzo.
Echeggiò un colpo e fu silenzio intorno.
Non declinare più luna di marzo.

*
Il mio fanciullo ha le piume leggere.
Ha la voce sì viva e gentile.
Ha negli occhi le mie primavere
perdute. In lui ricerco amor non vile.

Così ritorna il cuore alle sue piene.
Così l’amore insegna cose vere.
Perdonino gli dei se non conviene
il sentenziare su piume leggere.

giovedì 14 marzo 2013

MURALE di Mahmud Darwish (VII° e VIII° parte) - 15/03/2013


Articolo "DISTRUGGENDO L'ETERNITA' DEL LIBRO" (Clicca QUI)

MURALE (VII° parte)
di Mahmud Darwish


Ogni volta che mi sono rivolto alla prima
delle canzoni, ho visto sulle parole tracce di pernici.
Non sono stato un ragazzo felice
per dire: ieri è sempre più bello.
Ma il ricordo ha mani leggere che infiammano
la terra d’ardore. Il ricordo ha profumi di fiore
notturno che piange e risveglia nel sangue dell’esiliato
il bisogno di declamare:
<<Sii clivo della mia tristezza, troverò il mio tempo…>>.
Non ho bisogno che del batter d’ali di un gabbiano per
seguire gli antichi vascelli. Quanto tempo
è passato da quando abbiamo riscoperto i due gemelli:
il tempo e la morte naturale sinonimo di vita?
E continuiamo a vivere come se la morte ci avesse mancati,
noi, che siamo in grado di ricordare,
di liberarci, viandanti sulle verdi tracce
di Gilgamesh di tempo in tempo…

Polvere di compiuta genesi…
Mi spezza l’assenza come piccola giara d’acqua.
Enkidu ha dormito e non si è rialzato. Ha dormito la mia ala,
avvolta in una manciata di piume argillose.
Le mie divinità, vento pietrificato nella terra della fantasia.
Il mio braccio destro, un pezzo di legno.
Il cuore abbandonato come un pozzo senz’acqua
e l’eco selvaggia s’è fatta più ampia:
Enkidu! La mia immaginazione
non basta più per completare il viaggio. Ho bisogno
di forza perché il mio sogno sia reale.
Dammi le armi, le lucido col sale delle lacrime.
Dammi le lacrime, Enkidu, ché il morto in noi pianga
il vivo. Cosa sono? Chi dorme, ora,
Enkidu? Io o tu? Le mie divinità
sono un pugno di vento. Alzati in me con tutta
la tua umana temerarietà e sogna l’infima
eguaglianza tra le divinità del cielo e noi.
Noi, che edifichiamo la bella terra tra il
Tigri e l’Eufrate e impariamo i nomi a memoria.
Amico mio, com’è che ti sei stancato di me e mi hai abbandonato,
a che serve la nostra saggezza, senza giovinezza…
a che serve la nostra saggezza?
Mi hai abbandonato sulla soglia del labirinto, amico mio,
e mi hai ucciso. E io dovrò, da solo, intravedere il nostro
destino, e da solo reggere il mondo sulle spalle come un
toro infuriato.
Da solo esplorerò con passi incerti
la mia eternità. Devo risolvere
questo enigma, Enkidu, porterò per te la vita
finché potrò, finché ne avrò forza e voglia.
Chi sono io, da solo? Polvere di compiuta genesi attorno
a me. Affliggerò la tua ombra
nuda alle palme. Dov’è la tua ombra?
Dov’è la tua ombra, ora che i tuoi rami si sono spezzati?
     Il culmine
     dell’uomo
     è un abisso…
Sono stato ingiusto a lottare con la ferocia che è in te
per una donna che ti ha offerto il suo latte e ammansito…
E ti sei arreso all’umano, Enkidu, sii indulgente
e torna da dove sei morto, forse
troveremo risposta perché io, da solo, chi sono?
La vita individuale è incompleta e mi manca
la domanda, a chi chiederò del guado
del fiume? Alzati, dunque, o fratello del sale,
e portami. Mentre dormi, lo sai,
che stai dormendo? Alzati, dunque… basta dormire!
Muoviti, prima che i saggi mi proliferino attorno
come volpi. [Tutto è vano, coglio
la vita così com’è, instante gravido della sua linfa,
distillato sangue d’erba. Vivi per il tuo giorno, non
domani, vivi la vita adesso, in una donna
che t’ama. Vivi per il tuo copro, non per l’illusione.
E aspetta
un figlio che porterà l’anima al posto tuo.
L’eternità è rigenerazione dell’esistenza.
E tutto è vano o effimero
o effimero e vano.

Chi sono?
Il Cantico dei cantici
o la saggezza dell’Ecclesiaste?
Noi due siamo io…
Sono poeta
e re
e saggio sul bordo del pozzo
nessuna nuvola in mano
né undici astri
sopra il mio tempio
sono stretto nel mio corpo
stretto nella mia eternità,
e il mio domani
siede come una corona di polvere
sul mio scranno.

Vano, vanità delle vanità… vano,
tutto sulla terra è effimero.

I venti del nord
i venti del sud
il sole sorge in sé,
il sole tramonta in sé,
niente di nuovo, quindi
il tempo
era ieri,
vanità delle vanità.
Alti i templi,
alte le spighe,
se il cielo si abbassa, piove
se i paesi s’innalzano, si spopolano.
Ogni cosa, se supera il suo limite,
si muta un giorno nel suo contrario.
La vita sulla terra è l’ombra
di ciò che non vediamo…

Vano, vanità delle vanità… vano,
tutto sulla terra è effimero.
Millequattrocento carri
e dodicimila cavalli
portano il nome dorato
di tempo in tempo…
Ho vissuto come nessun poeta ha vissuto,
re e sapiente…
Sono invecchiato, tediato dalla gloria,
nulla mia manca,
è forse per questo che
quando s’accresce la mia sapienza
s’aggrava la mia ansia?
Che cos’è Gerusalemme e cosa il trono?
Nulla rimane nel suo stato,
c’è un tempo per nascere,
un tempo per morire,
un tempo per tacere,
un tempo per parlare,
un tempo per la guerra,
un tempo per la pace,
e un tempo per il tempo,
nulla rimane nel suo stato…
Ogni fiume sarà bevuto dal mare,
e il mare non è colmo,
nulla rimane nel suo stato,
tutti i vivi vanno alla morte,
e la morta non è colma,
nulla rimane se non il mio nome dorato
dopo di me:
<<Salomone fu>>…
Che ne faranno i morti del loro nome.
A illuminare
la mia immensa oscurità
saranno l’oro
o il Cantico dei cantici
e l’Ecclesiaste.


MURALE (VIII° parte)


Vano, vanità delle vanità… vano,
tutto sulla terra è effimero…
Come il Cristo sulle acque,
ho camminato nella mia visione. Ma sono sceso
dalla croce perché temo l’altezza e non
annuncio la resurrezione. Ho cambiato soltanto
ritmo per sentire più chiara la voce del cuore.
Agli epici le aquile, a me Il collare
della colomba, una stella abbondonata sui tetti,
una via tortuosa che conduce al porto di
Acri – né di più né di meno –
voglio rivolgere a me stesso i saluti del mattino
là dove mi sono lasciato ragazzo felice [non
ero un ragazzo fortunato, in quei giorni,
ma la distanza, come abile fabbro,
crea da semplice ferro una luna]
- Mi conosci?
ho chiesto all’ombra vicino alle mura,
una ragazza vestita di fuoco mi ha notato
e ha detto: stai parlando con me?
Ho risposto: sto parlando col mio spettro compagno,
lei ha mormorato: un altro pazzo di Layla che si aggira
tra le rovine,
e si è allontanata verso la sua bottega in fondo
al mercato vecchio…
Eravamo quaggiù. E due palme affidavano
al mare i messaggi dei poeti…
Non siamo cresciuti molto, o mio io. Il paesaggio
marino, le mura che difendono le nostre sconfitte
e il profumo dell’incenso dicono:
<<Siamo sempre quaggiù,
anche se il tempo si separa dallo spazio.
Forse non ci siamo mai separati>>.
- Mi conosci?
Il ragazzo che ho perduto ha pianto:
<<Non ci siamo separati, ma non ci incontreremmo mai>>…
Poi ha chiuso due piccole onde tra le braccia
e si è librato in alto…
Ho chiesto: chi di noi è il migrante?

Ho detto al carceriere sulla riva occidentale:
- Sei il figlio del mio vecchio carceriere?
- Sì!
- E tuo padre dov’è?
Ha detto: Mio padre è morto da anni,
caduto in depressione per il tedio della guardia.
Mi ha dato in eredità la sua missione e il suo mestiere,
e mi ha raccomandato
di proteggere la città dal tuo canto…
Ho detto: Da quando mi sorvegli e t’imprigioni
dentro di me?
Ha detto: Da quando hai scritto le tue prime canzoni.
Ho detto: Non eri ancora nato.
Ha detto: Ho il mio tempo e la mia eternità
e voglio vivere al ritmo dell’America e
del muro di Gerusalemme.
Ho detto: Sii chi sei. Ma io me ne sono andato.
E quello che ora vedi non sono io. E’ il mio fantasma.
Ha detto: Basta! Non sei il nome dell’eco
di pietra? Perciò non te ne sei andato e non sei tornato.
Sei ancora in questa cella gialla.
E allora lasciami stare!
Ho detto: Sono ancora qui?
In libertà o prigioniero senza
saperlo? E questo mare oltre le mura è il mio mare?
Ha detto: Sei il prigioniero, prigioniero
di te stesso e della nostalgia. E quello che ora vedi
non sono io. E’ il mio fantasma.
Mi sono detto: Sono vivo.
E ho detto: Se due fantasmi s’incontrano
nel deserto, si dividono la sabbia
o si contendono il monopolio della notte?

L’orologio del porto funzionava da solo.
A nessuno interessava la notte del tempo, i pescatori
di frutti di mare gettavano le loro reti e intrecciavano
le onde. Gli innamorati erano a ballare
e i sognatori carezzavano le allodole dormienti e
sognavano…
E ho detto: Se muoio mi risveglio…
Del passato ho quanto basta
ma mi manca un domani…
Marcerò sull’antico cammino
seguendo i miei passi, nell’aria di mare. Nessuna
donna mi vedrà sotto la sua finestra.
Non possedevo memoria se non quella utile
al lungo viaggio. E i giorni contenevano
quanto basta del domani. Ero più piccolo
delle mie farfalle e delle mie due fossette:
     prendi il sonno e nascondimi
     nel racconto e nella sera sentimentale,
     e insegnami la poesia, potrei imparare
     a passeggiare nei pressi di Omero
     e aggiungere alla storia la descrizione
     di Acri, la più antica tra le belle città,
     la più bella tra le antiche città. Una scatola
     di pietra. Brulicano i vivi e i morti nella sua argilla
     come api prigioniere dell’arnia,
     che scioperano contro i fiori
     e chiedono al mare una via di fuga ogni volta che
     l’assedio si stringe, e insegnami la poesia.
     Una ragazza potrebbe aver bisogno di una canzone
     per il suo lontano: <<Prendimi anche di forza,
     tieni il mio sogno
     tra le tue mani>>. Poi se ne vanno verso l’eco
     abbracciati, come se avessi accoppiato un cerbiatto
     randagio
     e una gazzella e aperto le porte della chiesa
     alle colombe… e insegnami
la poesia, colei che ha filato la camicia
di lana e atteso davanti alla porta
è più degna di parlare del mondo e della speranza
vana: il guerriero non è tornato,
o non tornerà, non sei tu colui che ho
atteso…

Come il Cristo sulle acque,
ho camminato nella mia visione. Ma sono sceso
dalla croce perché temo l’altezza e
non  annuncio la resurrezione. Ho cambiato soltanto
ritmo per sentire più chiara la voce del cuore.
Agli epici le aquile, a me Il collare
della colomba, una stella abbondonata sui tetti,
una via che conduce al porto…
Questo mare è mio
mia quest’aria umida
mia questa banchina e ciò che dei miei passi
e del mio sperma v’è sopra…
mia la vecchia fermata degl’autobus,
mio il fantasma e a chi appartiene.
Miei il vaso di rame, il versetto del Trono, la chiave,
miei la porta, i guardiani e le campane.
Mio il ferro di cavallo
volato via dalle mura…
E’ mio ciò che era mio. Mio il ritaglio del foglio strappato
al Vangelo, mio il sale delle lacrime sul
muro della casa…
E mio il mio nome, anche se ne sbagliassi la pronuncia,
mio il mio nome di cinque lettere orizzontali:
     la mim del pazzo d’amore, dell’orfano,
di chi ha compiuto il passato,
la ha’ del giardino, dell’amata,
delle duplici perplessità e delle duplici pene,
la mim dell’avventuriero, dell’esiliato forzato e
pronto alla morte annunciata,
del malato di desiderio,
la waw dell’addio, della rosa mediana, della fedeltà
alla nascita dovunque avvenga, della promessa dei
genitori,
la dal della guida, del cammino, della lacrima di
una dimora scomparsa e di un passero che
mi delizia e mi ferisce.

Mio questo mio nome…
e degli amici, ovunque siano,
e mio il mio corpo provvisorio, presente e assente…
Due metri di questa terra ora basteranno…
Per me, un metro e settantacinque centimetri…
e il resto per i fiori dai colori vaghi
che mi berranno piano,
e mio ciò che era mio: il mio ieri, e ciò che mi apparterrà,
il mio domani lontano, il ritorno dell’anima errante
come se nulla fosse stato,
come se nulla fosse stato.
Una lieve ferita sul braccio del presente assurdo…
e la Storia si burla delle sue vittime
e dei suoi errori…
Getta su di loro uno sguardo e passa…
Mio questo mare,
mia quest’aria umida
e mio il mio nome,
anche se ne sbagliassi la pronuncia sulla bara.
Quanto a me – ormai carico
di tutti i motivi per il viaggio -,
io non sono mio.
Io non sono mio.
Non sono mio…