Immaginate
di essere in Afghanistan, discendenti dell’armata Khan o dei Kushana, gli
antichi abitanti che costruirono i famosi Budda di Bamiyan, ormai polvere.
Potete scegliere la tradizione storica che volete. Ma avete tratti mongoli e
caucasoidi, in Afghanistan siete unici, riconoscibili ovunque. Siete gli
Hazara, la terza etnia più grande del paese e quella che ha subito le maggiori
violenze. E ancora così. Fine della personificazione. Cambiamo il pronome
personale. Loro sono perseguitati. Tra la fine dell’ottocento e i primi decenni
del novecento, vennero sterminati migliaia di uomini Hazara, mentre le donne e
i bambini venivano violentate e schiavizzati e le loro terre occupate –
presumibilmente perché si opponevano al potere espansionistico dei Pashtum e
dei Sunniti, essendo loro Sciiti; presumibilmente perché Amir Abdul
Rahman era un assassino. “E’ accertato che fino agli anni
settanta del secolo scorso alcuni insegnanti religiosi sunniti abbiano
predicato che l’uccisione degli Hazara fosse la chiave per accedere al
paradiso.1” Ancora oggi sono emarginati dalla società civile. Un po’
meno sotto Karzai, come prima col nuovo governo – ancora – Pashtun. Ora vengono
anche denunciati come collaborazionisti dell’Esercito americano. Vengono
perseguitati dai Taleban, non possono iscriversi alle scuole pubbliche e non
possono partecipare al dibattito politico cittadino e nazionale. Uccisi, annientati, polverizzati/ in nome di
un dio fanatico e geloso: il loro […]/ tuo fratello volte centotrentadue/ tua
figlia volte centotrentadue/ il tuo migliore amico volte centotrentadue/ chi
era il numero 120?/ cosa voleva fare da grande?/ e il numero 34?/ quali erano
le sue paure e passioni più grandi?/ riuscirà mai a superare il dolore la madre
dell’82?2. La matematica della sofferenza. Basir Ahang la
riporta come colpi di mitragliatrice. Eliminando il verbo, come a voler
togliere la voce a quel Dio che non ha radici comune (il loro). Dal soggetto si passa direttamente alla conta, al numero
dei caduti. Basir è un Hazara. Rifugiato politico in Italia dopo aver
conosciuto i nomi dei sequestratori talebani, impegnato per il suo rilascio,
dell’inviato di Repubblica Torsello in Afghanistan. Ha subito minacce e
ritorsioni. E’ dovuto fuggire. Basir è uno studioso della poesia persiana e
araba antica. Le sue poesie riportano un linguaggio misto, gioca con le
tradizioni più significative del suo paese. La lingua è personale, delimita i
confini culturali, ma non conosce frontiere. La lingua può esser di tutti.
Bisogna saperla adoperare. Una riflessione molto chiara ce la offre Oliver
Sacks: <<Il linguaggio, questa invenzione squisitamente umana, può
consentire quello che, in linea di principio, non dovrebbe essere possibile.
Può permettere a tutti noi – perfino a chi è cieco dalla nascita – di vedere
con gli occhi di un altro.>> Basir coinvolge il lettore adoperando un lessico
- che Pound definirebbe “esatto, chiaro” - usato appositamente per cogliere
l’attenzione. Banu! Guarda l’accetta/ un
predatore crudele/ e senza pietà/ ha tagliato la gola/ delle violette ancora
dischiuse3. L’uso della metafora è parte della costruzione
poetica perché non sempre la realtà è possibile descriverla. Per questo, come
ho già detto precedentemente, l’immaginazione ci aiuta a immagazzinare ciò che
avviene nel mondo. Non è un processo solamente personale: quando diviene
scrittura o filmato, quella capacità d’interpretazione diventa pubblica; e può
esser condivisa. La poesia non è uno slogan o mera descrizione. Il poeta, nel
suo dramma e in quello del suo popolo, non deve lasciare scampo alla cruda
realtà: la prende come viene e la scombussola con la sua passione ed energia e
fragilità. Come dice Noam Chomsky: <<Il linguaggio è un processo di
libera creazione; le sue leggi e i suoi principi sono fissi, ma il modo in cui
i principi della generazione vengono usati è libero e infinitamente vario.
Anche l’interpretazione e l’uso delle parole involve un processo di libera
creazione>>. Nella poesia “Esule vagabondo4”, Basir paragona
la sua patria alle sue scarpe, perché le
mie stesse scarpe sono tutta la mia terra/ poiché in un mondo di tale
grandezza/ non c’è posto in cui mi sia dato vivere. Ascoltare la disperazione
rabbiosa che evocano questi versi. Si sente tradito, non perso: si sente
tradito da tutto il mondo che non lo riconosce (e che non riconosce il suo
popolo). A un certo punto della poesia, l’autore scrive: la mia lingua è sconosciuta a tutti/ persino al mio vicino più
prossimo/ che ogni mattina col broncio e la rabbia/ non risponde al mio saluto/
ma io ho ancora speranza di vivere. La difficoltà di farsi comprendere nel
suo esilio forzato, lo spinge a lamentarsi e a sentirsi abbandonato dalla società
che lo circonda, ma questo delirio non lo allontana dalla voglia di vivere, lui
cerca la speranza, lui vuole dire agli altri cos’è stato e perché tutto ancora
accade, perché lui cerca la speranza. E, quasi come un messìa, ad un certo
punto profetizza e conclude: forse un
giorno questo nodo si scioglierà/ e la prossima generazione di questa città/
dopo aver letto la storia/ e la mia sorte/ maledirà i propri padri// questa è
la mia storia/ sono un esule vagabondo/ e la mia patria non son altro che le
mie scarpe. Basir ha scritto una poesia di rilievo intitolata
“Semplicemente ti dico”5, nella quale viene decantata tutta la sua
malinconia e collera, già dai versi iniziali dove, proferendo ad una donna (mia amata), si chiede come fare a dire
ciò che non si può comprendere, come l’uccisione e la violenza verso un altro
uomo. Non sa da dove iniziare. Allora comincia parlando a voce della sua gente
in prima persona singolare:
[…] Sinceramente ti
dico
amata
che il mio amore
è astinenza di
tossico
e le mie ferite
lividi di calce
L’amore traviato in chimica (tossico) e fisicità (calce),
citato in questa strofa, si riferisce alla lontananza (astinenza) e alle catastrofi (le
ferite) subite dal suo popolo. Si fa voce plurale nell’atto e nei
sentimenti che esprime. Questa prima scatola di versi la ritroveremo altre quattro
volte, con lo stesso inizio fraseologico, ma con un contenuto non più mitigato
dalla titubanza condita di timida incomprensibilità, ma il discorso diventa
diretto e cosparso d’immagini secche e dolorose. Già nel passo successivo
incontriamo l’improvviso mutamento:
la storia di questa
terra
è solo un racconto
d’accanimento
di una nazione dal
potere irrisa
e dal suo stesso
popolo boicottata
Qui la parola è pura descrizione. Nasce unicamente per
definire, in breve, la retorica che non si smonta ma che condiziona l’andamento
delle persone rinchiuse/costrette al suo interno.
Sinceramente ti
dico
mia amata
qui nessuno c’è per
nessuno
i cuori indugiano
reclusi
le bocche cucite
guarda la mia
fronte
e la ferita che vi
si posa
questa è la piaga
dei coltelli
affilati nella mia
terra
In queste due strofe l’autore enfatizza, senza mezzi
termini, la sua indignazione sia verso l’indifferenza del mondo, sia verso
l’accondiscendenza del suo popolo (già intravista nella strofa precedente) a
questo perpetuo martirio. La
sofferenza non trova scampo: il male nasce dalla propria terra: è lì che nasce
l’assassino e la vittima.
Sinceramente ti
dico
mia amata
che alla fine dei
conti
le rovine di Kabul
i giardini recisi
del nord
le fosse comuni di
Yakawlang
e i brandelli di un
Buddha
ormai lontano
altro non sono
stati
che desideri di un
popolo afflitto
Sinceramente ti
dico
mia amata
che da Afshar
a Kabul
tutto è silenzio
che i seni tagliati
di madri e sorelle
giacciono perenni
sui fili
elettrici della
città
che dal fondo delle
rovine
ancora si odono
le urla dei bambini
strappati da un
grembo
mai più fecondo
Basir, in queste due scatole, parte da una visione
storica e architettonica per finire a quella umana. Parla di distruzione. Non
c’è angolo nel quale si trovi il passato, ma neppure il presente perché mai più fecondo. Le immagini crude non
cercano pietà, ma suggestione – che attrae, avvicina – perché, se il passato è
cataclisma e il presente un aborto, ricordare è rendere materia (perenne come
la scrittura), non più un valore astratto, la realtà, la consistenza delle
possibilità – perché con lo sguardo che
non può vedere l’alba/ anche questo fa parte dell’essere umani// ed io sono di
questa razza6.
Sinceramente ti
dico
mia amata
qui nessuno c’è per
nessuno
le vie sono infette
e la povertà
scambiato
corpi per pane
infanti per rame
forse anche tu
comprendi
mia amata
che in mezzo a
tutta questa miseria
non si trova spazio
nemmeno fra le
righe
del cappotto di
lana
di un Karzai
qualunque
qui il mondo è
giunto al termine
e se guardi bene
mia amata
puoi leggerne la
fine
fra i solchi del
mio viso.
Il finale di questa poesia non tende la mano a nessuno.
La prima parte entra nell’intimità della situazione del suo paese. Le illusioni
hanno generato malattie e disinformazione. Il disastro è diventato quotidianità
– la morte, il clientelismo, il sequestro. Scendendo troviamo la delusione
verso un uomo (Karzai) che aveva
tentato una breve apertura verso il popolo Hazara, ma mai effettivamente
compiuta. Si finisce con un sospiro di sconforto, trasportato direttamente sul
corpo dell’autore – in quel reale che solo l’esperienza, il vissuto può
definire. Basir - non può - distaccarsi dagli eventi costruiti dal suo paese. Ne
è partecipe, anche se lontano, non può sottrarsi. In lui permane uno spirito di
coscienza non opponibile ad altro. Gioca col pessimismo storico. Non si arrende
all’ingiustizia generalizzata. Usa parole semplici, nessuna pomposità deviante.
Non si arrende: aspirando un tabacco
troppo amaro/ mi sono detto:/ ancora due o tre minuti/ e la vita tornerà quella
di prima7.
NOTE
1
dal sito hazarapeople.com / Breve storia
del popolo Hazara
2
dalla poesia 132, dal libro “Sogni di
Tregua” (Gilgamesh edizioni)
3
dalla poesia Banu, dal libro “Sogni
di Tregua” (G.E.)
4
dal libro “Sogni di Tregua” (G.E.)
5
dal libro “Sogni di Tregua” (G.E.)
6
dalla poesia Io sono di questa razza,
dal libro “Sogni di Tregua” (G.E.)
7
dalla poesia Interrogativo d’inverno,
dal libro “Sogni di Tregua” (G.E.)