giovedì 30 giugno 2011

BARBARA di J. Prévert (01/07/2011)


Di Jacques e della sua vita, penso che ne sappiamo molto - o almeno sappiamo quello che c'è giunto a noi da lui e da chi ha scritto di lui. La poesia è un canto d'amore profondo e ripido che ci fa stancare, come se stessimo correndo per una discesa infinita. C'è la guerra di mezzo, che Jacques cita a metà poema, inserendola nel punto in cui si è già stanchi e vogliosi di esplodere. Ma inserisce quella parola, "cazzata/coglionata", che ci fa quasi sorridere; ci stupisce. Ma non ferma la discesa, che si concluderà (e che conclude) con un "niente". 

.Barbara.
(Jacques Prévert)

Ricordati Barbara
Pioveva senza tregua quel giorno su Brest
E tu camminavi sorridente
Raggiante rapita grondante
Sotto la pioggia
Ricordati Barbara
Pioveva senza tregua su Brest
E io t’ho incontrata in rue de Siam
Tu sorridevi
E sorridevo anch’io
Ricordati Barbara
Tu che io non conoscevo
Tu che non mi conoscevi
Ricordati
Ricordati comunque di quel giorno
Non lo dimenticare
Un uomo si riparava sotto un portico
E ha gridato il tuo nome
Barbara
E tu sei corsa incontro a lui sotto la pioggia
Grondante rapita raggiante
Gettandoti tra le sue braccia
Ricordati di questo Barbara
E non volermene se ti do del tu
Io do del tu a tutti quelli che amo
Anche se non li ho visti che una sola volta
Io do del tu a tutti quelli che si amano
Anche se non li conosco
Ricordati Barbara
Non dimenticare
Questa pioggia buona e felice
Sul tuo viso felice
Su questa città felice
Questa pioggia sul mare
Sull'arsenale
Sul battello d'Ouessant
Oh Barbara
Che cazzata la guerra
E che cosa sei diventata ora
Sotto questa pioggia di ferro
Di fuoco acciaio sangue
E lui che ti stringeva tra le braccia
Amorosamente
E' forse morto disperso o invece
Vivo ancora
Oh Barbara
Piove senza tregua su Brest
Come pioveva prima
Ma non è più così e tutto si è guastato
È una pioggia di morte desolata e crudele
Non c'è nemmeno più bufera
Di ferro acciaio sangue
Ma solamente nuvole
Che schiattano come cani
Come cani che spariscono
Sul filo dell'acqua a Brest
E scappano lontano a imputridire
Lontano molto lontano da Brest
Dove non c’è più niente.

venerdì 24 giugno 2011

A CHI PORTI LA ROSA? di Islam Samhan (24/06/2011)


"Il mio nome è Islam Samhan. Sono nato nel novembre 1981. Attualmente lavoro come giornalista al quotidiano indipendente al Arab al Yawm. Ho pubblicato la mia prima raccolta di poesie, Leggiadra come un'ombra, nel marzo 2007 dopo essere stato autorizzato dal Dipartimento della stampa e delle pubblicazioni. Con mio enorme stupore il gran mufti di Giordania ha dichiarato che le mie poesie erano contro l'islam, e quindi mi ha definito un apostata. [...] Sono stato arrestato dopo essere stato accusato di essere <<Un nemico della religione">>. [...] Gli imam delle mosche mi hanno insultato durante i sermoni del Venerdì. I vicini mi evitano e molti amici mi hanno abbandonato. La vita è diventata estremamente difficile per me, mia moglie è incinta al quarto mese e mio figlio di due anni. [...] Non posso uscire di casa per paura di essere ucciso. La mia raccolta di poesie non voleva insultare l'islam. Ho incluso versetti coranici solo in senso metaforico. La letteratura e la poesia sono passibili di varie interpretazioni e le persone che sono contro la libertà di espressione li hanno interpretati in senso letterale. Sono convinto che la campagna contro di me serva solo a bloccare la creatività dei poeti e degli scrittori giordani."
Islam è stato sottoposto a fatwa. Il 21 giugno 2008, il tribunale di Amman, lo ha condannato a un'anno di reclusione e a un'ammenda di 10000 dinari giordani (circa 10 mila euro) per aver insultato "il sentimento religioso".
L'anno scorso è stato in Italia per presentare il suo libro, edito da Interlinea. La poesia che vi leggo è la prima, in senso cronologico, del libro. In più vi lascio il link dove Islam - nella presentazione - legge la stessa poesia in arabo.

A chi porti la rosa? lettura di Islam Samhan (youtube) 



A chi porti la rosa?
(a Gaza e alle altre vittime)
di Islam Sahman
"A chi porti la rosa?" (Ed. Interlinea)

Un innamorato mi ha fermato e gli ho chiesto:
a chi porti la rosa?
La tua innamorata verrà portata via
dal bombardamento da qui a poco
diventerà una manciata di polvere
Non rischiare la tua vita in nome dell’amore!

Un’innamorata mi ha fermato e mi ha detto:
l’amore mio verrà a trovarmi
forse in un momento di tregua riuscirò
a sistemarmi i capelli
a infilarmi al petto una spilla
simile a un arcobaleno
per poi correre
verso di lui
Credo che un giorno si alleerà con me
al contrario del mio destino turbato dal sibilo dei razzi.

Il bambino mi ha fermato e mi ha detto:
giorni fa stavamo giocando nei vicoli della Striscia
per un malinteso ho litigato con una bambina
Non volevo scatenare un putiferio
ma a me interessava la sua bambola
mentre lei voleva convincermi che le bambole
arrivano e ripartono come gli aerei.

Mi ha fermato la bambina e ha comunicato:
Ahmad è morto
Era contento dei fuochi d’artificio
che scintillavano in cielo
ma il piccolo non sapeva
che si sarebbe bruciato le ali come le farfalle
senza alcuna cicatrice.

Mi ha fermato una donna e le ho detto:
vedo che la gente sta trasportando tuo figlio
come se non gli fosse capitata una disgrazia
ma non ti ho vista
e dalla bocca del giovane colava
un filo di fiori
rossi
Sul suo viso un timido sorriso.

Mi ha fermato la stessa donna un’altra volta e ha aggiunto:
la casa era affollata di ragazzi
tutti radunati intorno all’acqua calda
per rasarsi la prima peluria sul mento
Ma in un batter d’occhio sono scomparsi tutti
come una borsetta in mano ad una ragazza
che è andata incontro alla morte.

Mi ha fermato l’uomo triste e ha detto:
stavo sistemando le perle nel ventre del pesce
stavo pettinando i capelli di Jamila
e scacciavo le leggere lentiggini sul suo seno
ma gli aerei
non hanno aspettato che avvolgessi
la vita della sposa con lo scialle della sua femminilità
le membra del suo corpo sono volate via
con lo scialle dalla terrazza di casa.

Mi ha fermato l’uomo avvolto nella sua kefiyya e ha detto:
non c’è bisogno di nascondersi o occultarsi
tra poco tutto si chiarirà
arriveranno i missili a farci morire
e non mi si chiederà di identificarmi
I cervi mi riconosceranno dagli abiti e da una collana
che ho nascosto in tasca.

Io invece mi sono fermato innanzi alla tomba
e mi sono domandato:
perché la morte diventa come il pane
la assaporiamo
aspettiamo la nostra porzione di morte
ci dirigiamo verso le tombe di famiglia, una famiglia
cui portiamo i nostri atti civili e i quaderni di famiglia.

venerdì 17 giugno 2011

RISPOSTA di Bei Dao (17/06/2011)


La poesia che vi propongo questa settimana è di un poeta dissidente cinese Bei Dao (il cui vero nome è Zhao Zhenkai). Nell'89 si trovava all'estero e da quell'anno, dopo i fatti di Tian'anmen, non c'ha fatto più ritorno. Con un gruppo di poeti e scrittori cinesi esuli, ad Oslo, ha fondato la rivista "Jintian" (già presente in Cina prima del suo obbligato esilio). Ha viaggiato e soggiornato in diversi paesi. Ora vive negli Stati Uniti.
Della poesia che vi ho letto, forse avrete fatto caso, nella sesta quartina (cioé i versi 21-24), ha una struttura narrante bibblica, riferendomi all'Apocalisse di Giovanni, nel capitolo tredici: "Il drago trasmette il suo potere alla bestia" (per precisare: Se taluno tiene altri in schiavitù, in schiavitù vada. / Se taluno uccide di spada, conviene che lui di spada sia ucciso.).
Penso sia la parte più emozionante e universale della poesia.
Di seguito vi lascio il link della mia recensione dell'intero libro di Bei Dao, pubblicato da Enaudi, dal titolo "Speranza fredda":  
http://www.trasumanar.com/recensione-bei-dao-speranza-fredda.html 
 
.Risposta. 
Bei Dao 

da “Speranza fredda” (Einaudi Ed.) 

L’abiezione è il lasciapassare dell’abietto
la nobiltà è l’epitaffio del nobile.
Guarda, in quel cielo indorato
sventola il riflesso ricurvo dei morti.

L’epoca glaciale è passata,
perché ovunque c’è ghiaccio?
Il Capo di Buona Speranza è stato scoperto,
perché nel Mar morto mille vele contendono?

Sono venuto a questo mondo
portando solo carta, corda e ombre,
per potere prima del processo
proclamare quella voce già giudicata:

Te lo dico, mondo
io – non - credo!
Anche se ai tuoi piedi ci sono mille sfidanti,
contami quale millesimo primo.

Io non credo che il cielo è azzurro;
io non credo all’eco dei tuoni;
io non credo che i sogni sono falsi;
io non credo che la morte è senza giudizio.

Se l’oceano è destinato ad aprire una breccia nella diga,
possano tutte le acque amare riversarsi nel mio cuore;
se la terra è destinata a sollevarsi,
possa l’umanità scegliersi una nuova vetta dell’esistenza.

Nuove svolte e stelle brillanti
ora decorano il cielo sconfinato,
sono i pittogrammi di cinquemila anni,
sono gli occhi degl’uomini del futuro che fissi guardano.

sabato 11 giugno 2011

IL CONTINGENTE di Janine Pommy Vega (10/06/2011)


La poetessa Janine Pommy Vega era (e lo è rileggendo le sue poesie) un fiume di dolore e di passione. La conobbi ad un reading a Reggio Calabria organizzato da Casa della Poesia e dall'associazione Angoli Corsari, nella manifestazione "Verso Sud" nel 2009, un'anno prima della sua morte. 
Ricordo un fatto curioso avvenuto quella sera. Mentre leggeva le sue poesie, era capitato che passasse diverse volte un motorino che faceva un casino assurdo, suonando il clacson forsennatamente. Lei, in quei casi, bloccava la lettura e cominciava a dire "Ciao, Ciao" indirizzato a colui o colei che sedeva sul motorino oppure faceva il verso del clacson. Era piena di vita, anche con la salute precaria e la malattia che ce l'ha trascinata via. Ha avuto una esistenza intensa, dai 16 anni in poi la si è vista un pò ovunque, principalmente impegnata nel sociale. E le sue poesie sono un'espressione vera e cruda di quello che ha vissuto e del male che ci attanaglia e ci sopprime, nella nostra totale abitudine nel subire. La poesia che vi leggo è la conferma di questa mia ultima affermazione. E' venuta molto spesso in Italia, grazie soprattutto al grande interesse e lavoro che compie Casa della Poesia (www.casadellapoesia.org), che ha pubblicato un suo piccolo quaderno di poesie "Nell'era delle cavallette"; l'unico in Italia.


.Il Contingente.
(Janine Pommy Vega)

Uscendo o entrando in un carcere per la cinquantesima o centesima volta
incontrare per caso un “contingente”,
l’arrivo di prigionieri nella nuova dimora,
guardare gli uomini trascinarsi in catene
caviglie in catene polsi in catene
uomini comuni, la dignità calpestata
come da regolamento sul pavimento
della latrina, dove volgi i tuoi occhi?

Come, al pari di Pablo Neruda, che avanzò tendendo
le mani, sporche del sangue
delle miniere, puoi non essere partecipe del crimine?
Si dice “in transito”, una procedura di routine,
come se darle un nome cancellasse lo squallore
un eufemismo come “alle docce”
ad Auschwitz, “lei è in assistenza alle truppe”,
come puoi assistere? Dove volgi i tuoi occhi?

Nella Prima Guerra Mondiale, nella Seconda Guerra Mondiale
uomini richiamati per difendere il loro paese
ora vengono fermati per sostenere un’industria
fondata sulle loro catene con una base
forte di due milioni di persone. Qualcuno vuole un paralume?
E a vederli ogni settimana, regolarmente, incontrandoli per caso
appena arrivati al cancello, o alla gabbia centrale,

o alla panchina sul pavimento della guardiola,
cerchi con gli occhi lo sguardo
dell’uomo che non vuole essere visto, con rabbia? Con compassione?
Guardi da qualche altra parte nello squallido
ambiente in cerca di aiuto? Ignori
le catene che la civiltà a cui appartieni
ha messo alle sue mani, ai suoi piedi? Pieghi la testa
per la vergogna? Chiedi perdono?

Attento che nessuna traccia giunga al tuo volto, tu
ti pieghi in due colpito allo stomaco
all’improvviso, carponi nella fogna
avanzando a fatica nelle acque di scolo.
Gli uomini in uniforme che recintano carne cruda in gruppi
sono lavoratori nel mondo, come te
che trasportano gente in catene
come lavoro quotidiano, che impressione farà?

Se questo fosse un caso isolato
potresti raccontare la storia a un mondo scioccato
turbato nel suo innato pudore per chiedere rimedio
ma è un fatto comune

La crudeltà è passata da atti causali
ad essere causa principale un tumore
grande quanto un pompelmo nel cuore di un popolo
e per quanto tu provi non c’è modo di evitarlo
o darti all’umorismo macabro e dimenticarlo,
non c’è luogo in cui tu possa volgerti e non vederlo,
la colpa della complicità ricade sulle spalle
di tutti coloro che tacciano, su noi che volgiamo altrove gli occhi.



Willow, New York, marzo 1999

LA PENOMBRA DA UNA POLTRONA di Eloy Santos (03/06/2011)


La poesia è tratta da Nettunaria (VIA DEL VENTO Edizioni). C'è nella sua scrittura un intimità spesso indifferente, fredda, ma che non allontana il lettore, anzi lo frusta, gli rammenta che siamo tutti vittima di un giorno che ha lo stesso orologio ugaule per tutti. Collisione di mondi. Il poeta vive da molti anni in Italia, di lui sono pubblicati questo libricino di 26 pagine e un'altro "Lingue di mare, lingue di terra" (Mesogea, 1999).  Ve lo leggo e ve lo consiglio.


La penombra da una poltrona
- Eloy Santos

entro stanco in casa.
il maggiordomo è il silenzio. il cielo
è già scuro e nelle chiavi suonano
minime scampanate notturne,
il tempo dell’oblio su una poltrona.
la solitudine, mia sorella blu, la mia amante
mi lascia un bacio d’ombra sulla mano,
un sussurro di neve. il mondo tace
nel bicchiere di latte trapassato
sull’orlo di una vita che non esiste.
non resta nella mia giornata traccia che mi somigli,
un residuo di me che regga un giorno,
che mi faccia diverso dai tristi
labirinti dove mi affretto.

trono ormai sordo a casa,
torno ormai sfogliato.
anche così, lenta, persistente,
l’anima accende in me candele dolenti
per dirti ancora una volta il peso,
oscuro dio, la voce della tua cecità
chiedendo passo a tentoni nella mia carne,
reclamando parole che vorrei non darti,
e che malgrado ciò lascio scritte,
senza inchiostro né speranza,
sui fiumi violacei del sogno.

BARCALORA di Pablo Neruda (27/05/2011)


"BARCALORA"
Pablo Neruda

da Residenze sulla terra
(Passigli Editori) a cura di Giuseppe Bellini


Se solamente mi toccassi il cuore,
se solamente mettessi la tua bocca sul mio cuore,
la tua bocca sottile, i tuoi denti,
se mettessi la tua lingua come una freccia rossa
lì dove il mio cuore polveroso batte,
se soffiassi nel mio cuore, presso il mare, che piange,
risuonerebbe con un rumore scuro, un suono di ruote di treno in sogno,
come acque vacillanti,
come l'autunno sulle foglie,
come sangue,
con un rumore di fiamme umide che bruciano il cielo,
suonando come sogni o rami o piogge
o sirene di porto triste,
se tu soffiassi nel mio cuore presso al mare,
come un fantasma bianco,
sull'orlo della schiuma,
in mezzo al vento,
come un fantasma scatenato, sulla riva del mare, che piange.

Come assenza distesa, come campana improvvisa,
il mare diffonde il suono del cuore
piangendo, annottando su una costa sola:
la notte cade indubbiamente,
e il suo lugubre azzurro di stendardo in naufragio
si popola di pianeti d'argento arrochito.

E il cuore suona come una conchiglia aspra,
chiama, oh mare, oh lamento, oh diffuso spavento
sparso in disgrazie e in onde sconvolte:
dal sonoro il mare accusa
le sue ombre riverse, i suoi papaveri verdi.

Se tu esistessi d'improvviso , su una costa lugubre,
circondata dal giorno morto,
dinanzi a una nuova notte,
colma di onde,
e soffiassi nel mio cuore freddo di paura,
se soffiassi nel sangue solo del mio cuore,
se soffiassi nel suo movimento di colomba in fiamme,
risuonerebbero le sue nere sillabe di sangue,
crescerebbero le incessanti acque rosse,
e suonerebbe, suonerebbe  d'ombre,
suonerebbe come la morte,
chiamerebbe come un tubo pieno di vento o di pianto,
o una bottiglia che gorgogli spavento.

Così i lampi coprirebbero le tue trecce
e la pioggia entrerebbe dai tuoi occhi aperti
a preparare il pianto che sordamente rinserri,
e le ali nere del mare girerebbero intorno
a te, con grandi artigli e gracidii e voli.

Vuoi essere il fantasma che soffia, solitario,
presso il mare il suo sterile, triste strumento?
Se solamente chiamassi,
il suo suono prolungato, il fischio malefico,
l'ordine di onde ferite,
forse qualcuno verrebbe,
qualcuno verrebbe,
dalle vette delle isole, dal fondo rosso del mare,
qualcuno verrebbe, qualcuno verrebbe.
Qualcuno verrebbe, soffia con furia,
che suoni come sirena di nave spezzata,
come lamento,
come un nitrito tra la schiuma e il sangue,
come un'acqua feroce che si morde e suona.

Nella stagione marina
la sua conchiglia d'ombra circola come un grido,
gli uccelli del mare la disprezzano e fuggono,
le sue righe di suono, le sue lugubri sbarre
si alzano sulle rive dell'oceano solo.