giovedì 20 settembre 2012

.IV. (da "AUTOBIOLOGIA - La Bovary c'est moi") di Giovanni Giudici (21/09/2012)


Parlando di poesia italiana, si è sempre fatto molto riferimento e attenzione alla poetica di Giovanni Giudici.
Ho avuto occasione di leggere tutta la sua opera, avendo preso in prestito dalla biblioteca di Moncalieri – inaccessibile in altri modi, per il prezzo, se non rubandolo - il meridiano della Mondadori, “I versi della vita”.
Prima di allora, ne avevo fatto solo delle letture sporadiche. Non volendo annoiare come mi sono annoiato io, dico che la poesia italiana si riconosce nel suo blocco pre-pasoliniano (ma lontano anche da un Ungaretti o dalla poesia del gruppo 63, che comunque non entusiasma molto per la sua linea elitaria e, troppo spesso, odiosamente e volutamente incomprensibile, sconnessa, introversa)  dalla rima e dall’arcaica tradizione Ermetica, Stilnovo, Provenzale.
Devo ammettere che i primi due libri, “La vita in versi” e “Autobiologia” (dal quale estrapolo la poesia che vi leggo), sono molto interessanti, almeno per l’epoca, anche se strutturate con metrica e rigore musicale sillabico, per la sua incidenza popolare, comunista, “volgare”. Vale anche per la linguistica: aperta, fluida, sperimentale (in effetti, la prima poesia del libro “La vita in versi” si intitola Sperimentale).
Mi ha affascinato molto la sua composizione tecnica della frase o del verso, giocata sulla rottura del dialogo avviato per rapportarne un’altro (con l’uso del trattino), a volte totalmente sconnesso dal pensiero e dal senso che si stava affrontando fino a poche righe addietro; una nuova poesia; breve; a tratti un aforisma.

“Intuisce determina inventa –
inascoltato Keplero sperimenta:
supponi punto retta sfera – orbita
che l’includa e sorpassi,
seguila fino in fondo e troverai
la cometa in viaggio a un <<Pax in terra>>.”

Dopo questi due libri, la poetica del Giudici si fa molto monotona e ripetitiva; almeno nei temi e nel linguaggio. Non si rinnova, anzi perde coscienza e si stabilisce su un piano preistorico, canzonato e sempre più ermetico. La poesia è breve, più chiusa verso il significato; intima e incentrata sulla quotidianità (sembra che il Giudici abbia problemi di affitto o di insolvenza biologica verso Milano, non lo biasimo: è sempre alla ricerca di una casa – qualche narcisista critico psicologo potrà parafrasarlo con un: “è una ricerca di stabilità interiore, una roba figa zen, una consapevolezza di un Sé inascoltato e distante [effettivamente ritorna spesso questo Sé inoppugnabile, ma quasi introvabile nella zona che frequenta il poeta]. Va bene comunque come interpretazione. Fate voi.)
Da qui la mia noia e il mio dubbio su commenti come “Uno dei massimi poeti italiani del Novecento” (dal blog di Giuseppe Genna).
Sarà che uno quando muore, in Italia, a priori e nel breve periodo, è sempre decorato di magnificenza e retorica (quanti “massimi poeti italiani del Novecento” ci sono?). Poi, nel lungo periodo, ognuno fa le sue scelte e riflessioni. O, come più spesso accade, abbandona la presa; racchiudendo tutto nei libri di Storia letterari.

La poesia che vi leggo è un’opera di disperazione e amore. Qui il Giudici si fa donna e parla con voce sentimentale e profetica (e raramente questo accade). 


.IV. (da “Autobiologia – La Bovary c’est moi”)
di Giovanni Giudici

Lontano come la luna mi domando come puoi
dirmi se è stata quella davvero l’ultima volta.
Ma prima di cancellarti devo saperlo.
In verità non è stata davvero una volta speciale
come altre che a lungo mi avevi guardata
perché nei tuoi occhi restassi – dicevi,
mentale inerme immagine presto dimenticata.
Toccare è più che vedere, sentire è più che pensare
ti rispondevo – non mi guardare.
La fine vera non è la fine aspettata.

Dovessi tornare alla scuola e mi dessero un compito
in cui si ordinasse <<descrivi l’ultima volta>>
potrei raccontare soltanto che <<dunque a fra poco>>
mi disse – ma non sospettavo che fosse l’ultima volta.
Se è stata proprio l’ultima seppellisci
il nome della strada e la bocca che ti sfiorava.
Non dovrò più cercarti in chi ti ha veduto
né ascoltare chi ti ha ascoltato – non tenterò
di toccare parole che ti hanno parlato.
Ma se non è stata l’ultima vieni a dirmelo.

giovedì 6 settembre 2012

TRISTEZZA DELLA LUNA di Charles Baudelaire (07/09/2012)



“Tristezze della luna” è una delle poesie che più amo del libro “I fiori del male” di Charles Baudelaire. E’ semplice. Non chiede grandi risultati. L’architettura della poesia è basata su rime alternate e rime baciate. Parla di amore, l’amore più puro: quello platonico. Senza pregiudizi o disgrazie coniugali. Lo fa in modo naturale, con timorosa passione. Le metafore sono immagini simboliche e serafiche. Con semplicità. Con una metafora magnifica che compone gli ultimi quattro versi, scritta con rime che non ritmano il senso (cioè non si trovano lì per rafforzare l’immagine, come lo era per gli scrittori romantici, dal quale lui deriva temporalmente), ma utilizzando il suono per rendere più dolce e, ripeto, semplice; una visione onirica, fiabesca.


.Tristezze della luna.
(Charles Baudelaire)

Nei suoi sogni la luna è più pigra, stasera:
come una bella donna su guanciali profondi,
che carezzi con mano disattenta e leggera
prima d’addormentarsi i suoi seni rotondi,

lei su un serico dorso di molli aeree nevi
moribonda s’estenua in perduti languori,
con gli occhi seguitando le apparizioni lievi
che sbocciano nel cielo come candidi fiori.

Quando a volte dai torpidi suoi ozi una segreta
lacrima sfugge e cade sulla terra, un poeta
nottambulo raccatta con mistico fervore

nel cavo della mano quella gocciola frale,
pallida e iridescente come scheggia d’opale,
e, per sottrarla al sole, se la nasconde in cuore.