Parlando di poesia italiana, si è
sempre fatto molto riferimento e attenzione alla poetica di Giovanni Giudici.
Ho avuto occasione di leggere
tutta la sua opera, avendo preso in prestito dalla biblioteca di Moncalieri –
inaccessibile in altri modi, per il prezzo, se non rubandolo - il meridiano
della Mondadori, “I versi della vita”.
Prima di allora, ne avevo fatto
solo delle letture sporadiche. Non volendo annoiare come mi sono annoiato io,
dico che la poesia italiana si riconosce nel suo blocco pre-pasoliniano (ma
lontano anche da un Ungaretti o dalla poesia del gruppo 63, che comunque non
entusiasma molto per la sua linea elitaria e, troppo spesso, odiosamente e
volutamente incomprensibile, sconnessa, introversa) dalla rima e dall’arcaica tradizione Ermetica,
Stilnovo, Provenzale.
Devo ammettere che i primi due
libri, “La vita in versi” e “Autobiologia” (dal quale estrapolo la poesia che
vi leggo), sono molto interessanti, almeno per l’epoca, anche se strutturate
con metrica e rigore musicale sillabico, per la sua incidenza popolare,
comunista, “volgare”. Vale anche per la linguistica: aperta, fluida,
sperimentale (in effetti, la prima poesia del libro “La vita in versi” si
intitola Sperimentale).
Mi ha affascinato molto la sua
composizione tecnica della frase o del verso, giocata sulla rottura del dialogo
avviato per rapportarne un’altro (con l’uso del trattino), a volte totalmente
sconnesso dal pensiero e dal senso che si stava affrontando fino a poche righe
addietro; una nuova poesia; breve; a tratti un aforisma.
“Intuisce determina inventa –
inascoltato Keplero sperimenta:
supponi punto retta sfera –
orbita
che l’includa e sorpassi,
seguila fino in fondo e troverai
la cometa in viaggio a un
<<Pax in terra>>.”
Dopo questi due libri, la poetica
del Giudici si fa molto monotona e ripetitiva; almeno nei temi e nel
linguaggio. Non si rinnova, anzi perde coscienza e si stabilisce su un piano
preistorico, canzonato e sempre più ermetico. La poesia è breve, più chiusa
verso il significato; intima e incentrata sulla quotidianità (sembra che il
Giudici abbia problemi di affitto o di insolvenza biologica verso Milano, non
lo biasimo: è sempre alla ricerca di una casa – qualche narcisista critico
psicologo potrà parafrasarlo con un: “è una ricerca di stabilità interiore, una
roba figa zen, una consapevolezza di un Sé inascoltato e distante
[effettivamente ritorna spesso questo Sé inoppugnabile, ma quasi introvabile
nella zona che frequenta il poeta]. Va bene comunque come interpretazione. Fate
voi.)
Da qui la mia noia e il mio
dubbio su commenti come “Uno dei massimi poeti italiani del Novecento” (dal
blog di Giuseppe Genna).
Sarà che uno quando muore, in
Italia, a priori e nel breve periodo, è sempre decorato di magnificenza e
retorica (quanti “massimi poeti italiani del Novecento” ci sono?). Poi, nel
lungo periodo, ognuno fa le sue scelte e riflessioni. O, come più spesso
accade, abbandona la presa; racchiudendo tutto nei libri di Storia letterari.
La poesia che vi leggo è un’opera
di disperazione e amore. Qui il Giudici si fa donna e parla con voce
sentimentale e profetica (e raramente questo accade).
.IV. (da “Autobiologia
– La Bovary c’est moi”)
di Giovanni Giudici
Lontano
come la luna mi domando come puoi
dirmi
se è stata quella davvero l’ultima volta.
Ma
prima di cancellarti devo saperlo.
In
verità non è stata davvero una volta speciale
come
altre che a lungo mi avevi guardata
perché
nei tuoi occhi restassi – dicevi,
mentale
inerme immagine presto dimenticata.
Toccare
è più che vedere, sentire è più che pensare
ti
rispondevo – non mi guardare.
La fine
vera non è la fine aspettata.
Dovessi
tornare alla scuola e mi dessero un compito
in cui
si ordinasse <<descrivi l’ultima volta>>
potrei
raccontare soltanto che <<dunque a fra poco>>
mi
disse – ma non sospettavo che fosse l’ultima volta.
Se è
stata proprio l’ultima seppellisci
il nome
della strada e la bocca che ti sfiorava.
Non
dovrò più cercarti in chi ti ha veduto
né
ascoltare chi ti ha ascoltato – non tenterò
di
toccare parole che ti hanno parlato.
Ma se non
è stata l’ultima vieni a dirmelo.
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