venerdì 25 dicembre 2015

NATALE di Carmen Yáñez (25/12/2015) - Esilio #1



L’esilio conia monete proprie, non scambiabili con quelle altrui; altre monete, altre città, altro sangue e gente – possiamo condividere la stessa ambientazione? Il ponte, perché l’esilio è un ponte, può ricongiungere o solo accompagnarci dall’altra parte? Dimentichiamo noi la strada del ritorno o sono loro a dimenticarci – il luogo, la Storia, il sangue e la gente? L’esilio non lo si può cancellare. Sta fisso sul tuo volto, dimora nei nostri accenti e nel nostro imbarazzo nel non scordare quelle case, quel luogo, quel sangue e quella gente. La ripetizione dei termini, del non poter obliare le radici mobili, la reiterazione labiale, è un incubo che sfocia nell’incomprensione, nella rabbia, nello sdrammatizzare i momenti inconciliabili dove ci sono ombre che spiano il nostro sonno1.

Carmen Yáñez.
Le ombre godono di potere, e la Yáñez le sfida con la delicatezza dei suoi versi. Cura le parole che servono a smembrare il lascito dell’abbandono. Ombre, inventario di ombre. Nella poesia “Navidad2” (Natale), questi versi raffigurano, in tono neutro, il deposito e l’accumulo, quasi come fosse un processo burocratico, l’inventario, della sofferenza; l’epicentro sul quale si sposta l’attenzione; il nesso delle nostre rivoluzioni. Queste parole le incontriamo a metà poesia - la seconda parte concatenata alla prima scatola di versi sciolti che descrive ciò che sta avvenendo, e poco prima della conclusione. Seguiamo un ordine. Il primo verso esprime l’azione che l’autrice vuole portare a termine:

En diciembre sacudo las sombras de mi casa.
(In dicembre scuoto le ombre dalla mia casa)

É lo scopo di questa poesia: mandare via le paure, le cose sospese, la perdita. Ed ecco che dal quarto verso in poi ci vengono esplicitati questi motivi:

En diciembre apremio mi pulso,
el recuento de los quebrantos, la carta en la mano,
el afecto abierto y las prisas a un dudoso abrazo.
(In dicembre accelero il battito,
la conta delle pene, la lettera in mano,
l’affetto aperto e l’urgenza di un abbraccio incerto)

In questa poesia le ombre compiono un lavoro preciso: quello di immobilizzare il tempo. Per questo vengono viste come un inventario, un qualcosa che ha catalogato tutte le cose tristi, forse irrisolvibili, della vita. Dicembre è la fine dell’anno, il momento in cui si apre una nuova porta, ricostruzione, fare pulizia, entrare in un nuovo ciclo. Nei passi successivi vediamo come questa determinazione prende piede:

En diciembre las sombras proliferan en los
muebles […]
sombras, inventario de sombras
que combato a escobazos y bayetas.
(In dicembre le ombre proliferano sui
mobili […]
ombre, inventario di ombre
che combatto a suon di scopa e straccio)

Credo sia una visione molto forte: senza alcun filosofare, come polvere e identificabile in ognuno di noi: oggetti comuni, scopa e straccio, gesti semplici ed energici, fisici, a cancellare la sporcizia nell’incurabile cuore. E gli ultimi versi rimasti portano ad un passo superiore l’ansia pulitrice e rigeneratrice della soldatessa, con lieve sarcasmo, concludendo l’opera con fare semplice e metodico – con un po’ di soluzione alcalina e vittoriosa:

Borro con lenjía mis descuidos e insolencias
y vuelvo limpia a empezar con mi arsenal
de intenciones otra vez
a poblar la casa.
(Cancello con la lisciva mille mancanze e insolenze
e pulita torno con il mio arsenale
di intenzioni di nuovo
a popolare la casa)

In questa poesia osserviamo un percorso preciso che si snoda tra la spiegazione (il dove e il quando; la prima sezione), il perché (la seconda) e il come (il rimedio; la terza parte). Senza alcuna sottigliezza, la parola ci offre condizioni sentimentali precisi, inossidabili. Una spiegazione ce la suggerisce l’autrice stessa quando scrive: Non voglio il verbo/ che strangoli la bellezza/ nella bocca del lupo./ Voglio la parola/ che scivoli per caverne terrestri/ verso il palpito3. Quindi non parliamo di linguaggio destabilizzante, violento, giudicatore (il lupo), ma di un senso recondito, di un significato empatico, che dal dire sfocia all’azione - l’uso di metafore, la corretta disposizione dei termini che rendono in immagini il senso prodotto. Dovrei in questa sera monotona/ aprire le cataratte della diga (le lacrime visive; la condizione, piangere)/ e rompere il silenzio/ con le tracimanti trombe d’acqua e sale (le lacrime sonore; il compimento, il pianto)/ che i miei occhi trattengono4. Vedete come son ben distribuite le azioni compiute dalle parole, la diga e le trombe, e le conseguenti immagini scaturite? Ma le ombre di cui la Yáñez ci fa prendere coscienza, derivano principalmente dal suo esilio forzato. Nel 1975 viene messa sotto torchio dalla polizia politica di Pinochet e una volta fuggita dalla terribile Villa Grimaldi, rimane in clandestinità fino al 1981. Con la protezione dell’ONU, riesce a rifugiarsi in Svezia. Tutte queste crudeli avventure sono parte integranti del suo dolore, di quelle ombre che si annidano, palpabili, anche tra i mobili. L’amore ha sempre un qualcosa riferente l’addio, l’impossibilità di esser comunque vicini, come se quel solco chilometrico che la divide dal Cile, lo sia diventato anche con gli esseri che le vivono accanto. Sentite come sono teneri e al contempo intrisi di collera nostalgica questi versi:

Retornada del destierro
a tu sonrisa,
volveré llana,
apenas hembra la voz de mi sombra
en tu espejo5
(Restituita dall’esilio/ al tuo sorriso,/ tornerò semplice,/ giusto un filo di voce della mia ombra/ nel tuo specchio).

Lo si sente: la sua anima è legata al luogo che l’ha scacciata – solo fisicità rimane, il corpo limitato, costretto alla forza di gravità espressa dal distacco. Io trovo significante e importante, dove si riassume l’intero racconto, la poesia “Riflessioni per non tornare6”. In quest’opera, la Yáñez, espone dettagliatamente la sua visione del Cile di oggi, rammentando quello di ieri. Questa donna ha combattuto per un paese che lei oggi non comprende: <<Non mi pento di niente, e quando mi guardo indietro, l’unico rammarico è vedere il mio Paese che non è diventato quello che avrebbe potuto. Quello per cui noi abbiamo lottato. Grattacieli come dappertutto, con un divario enorme fra i ricchi e i poveri, non era questo quello che volevamo, ma ci hanno tenuti fuori dalla ricostruzione di un paese, ed ecco il sentimento controverso di amore per un Cile che non è quello che si ama.7>> Bisogna usare l’immaginazione per comprendere il reale. Vivere dentro a situazioni di comodo spesso ci inibisce così tanto da non riuscire più a definire il bello dal brutto, il giusto dallo sbagliato. Non è più necessario combattere, qualcosa ci ha sfiancato – la retorica della politica, la televisione come ristagno dei nostri sentimenti, il marasma giudice e lassativo di internet. Sono esempi. Come ha scritto la Angot: <<La civiltà è questo: è vedere il reale grazie a un processo che capovolge e che la rende visibile rovesciando nelle nostre teste l’immaginario>>, e come ha scritto Brodskij diverso tempo fa: <<Il vero pericolo per uno scrittore (e per la società) non è tanto la possibilità di una persecuzione da parte dello stato, quanto la possibilità di farsi ipnotizzare dalla fisionomia dello Stato, una fisionomia che può essere mostruosa o cambiare in meglio, ma che è sempre provvisoria>>. Le lusinghe e le tentazione sono il traguardo per il conformismo. Avendo delle scelte, bisognerebbe servirsene sempre per la giusta causa e non per il divano più comodo. La Yáñez, con la sua posizione civile in veste romantica guarda in faccia la realtà, sdogana la bruttezza del luogo con l’immaginazione in versi carichi di pathos e appassionata vitalità e fragilità. Iniettare di canto il disordine della selva oscura. Andiamo.

Me hablas de una casa, viento, luz y yo pregunto:
¿y qué pondremos contra las tempestades
si son frágiles los muros en inverno?

Roble, madera recia,
leños encendidos que crepiten
en el fuego del hogar.

Fuego en el hogar, de roble la casa, viento y luz
y me quedo sin palabras…

(Mi parli di una casa, vento, luce e io chiedo:
e cosa mai opporremo alle burrasche
se sono fragili i muri d’inverno? //
Quercia, legno massiccio,
ceppi accesi che crepitano
nel fuoco del camino. //
Fuoco nel camino, di quercia la casa, vento e luce
e io resto senza parole…)

Già solo questi primi otto versi si auto-concludono. Il ripetersi di alcune immagini - il fuoco nel camino, la quercia della casa, il vento, la luce – aprono e chiudono questa scatola di ricordi e insicurezza. Sono i punti di sospensione a portarci nella seconda parte dove viene innestata la bandiera controvento - perché non tornare? Non ho parole delle meraviglie della mia infanzia? - e suona l’albero una canzone di falsa patria o disperato esilio8.

Hay sombras que acechan nuestro sueño.
Vigila desde un norte que nos marca.
Un desolado destierro que remite al frío.
Un lugar invetado desde el delirio.
Un lugar sin huellas nuestras todavia.
(Ci sono ombre che spiano il nostro sonno.
Veglia da un nord che ci marchia.
Un desolato esilio che rimanda al freddo.
Un posto inventato nel delirio.
Un posto dove non abbiamo ancora messo piede.)

È la parte centrale, dove racchiude in se la forza del destino che ha prevalso e che, solo a rivangarlo, riannuncia i suoi turbamenti. E’ la scena dopo, quella del caos. Un posto inventato nel delirio, è un’immagine splendida nella sua tristezza (quella “pequeñas tristezas” che è il contorcersi del desiderio, del ricordare). Questo passaggio è il preludio dell’ultimo passo, quello che il titolo aveva già specificato. Il perché. La risposta alla prima domanda rimasta in sospeso. Senza retorica alcuna, con misurata freddezza.

Me hablas entonces de ese país que dolió tanto,
de ese país que llevamos en una alforja en la
espalda,
de aquel país que más de alguna vez dejamos
olvidado
en alguna estación de trenes en Europa.

Me hablas de ese mismo país que lloramos como
viudos,
tirando sus cenizas en el Sena o en el Báltico.
Me hablas de ese país resucitado entre los muertos,
de ese país defectuoso,
de ese país perfectamente idiota
y nuestro.
(Poi mi parli del paese che tanto male ti fece,
del paese che ci portiamo sulle spalle in una
bisacca,
del paese che in più d’un’occasione
dimentichiamo
in qualche stazione ferroviaria d’Europa.//
Mi parli dello stesso paese che piangiamo come
vedovi,
disperdendone le ceneri nella Senna o nel Baltico.
Mi parli del paese risuscitato tra i morti,
del paese difettoso,
del paese perfettamente idiota
e nostro.)

Sono versi di una forza strepitosa. Senza mai eccedere nel verbalizzare o nella ruvidezza, scandisce in modo nitido la visione generale di un posto che ormai aveva scacciato le cose migliori e che, invece di ricolmare il vuoto, ha seminato in sé il passato, gli errori, l’omologazione. Colui che parla all’autrice – e col quale sembra confrontarsi – ha una duplice identità: l’esilio e il cuore. Quel “nostro” finale racchiude invece tutta la gente del luogo (e non solo; come non sentirsi parte di quel noi, di quell’idiozia ormai comune ad ogni noi?) e lascia aperta la porta ad ogni eventualità. In quasi tutte le poesie della Yáñez si riscontra un finale aperto. Come se non bastassero mai le parole. Come se tutti potessimo aggiungere un pezzo e tirare le nostre somme. Come a dire: sono la parola disperata / che rompe l’artificio / del mio silenzio e forma, indissolubile, / il mio nome nella tua lingua.9

NOTE
1 dalla poesia Riflessioni per non tornare, da “Cardellini della pioggia” (Guanda Editore)
2 dal libro “Cardellini della pioggia” (Guanda Editore)
3 dalla poesia E la parola?, da “Latitudine dei sogni” (Guanda editore)
4 dalla poesia Quotidianità, da “Latitudine dei sogni” (Guanda editore)
5 dalla poesia Lacci, da “Latitudine dei sogni” (Guanda editore)
6 dal libro “Cardellini della pioggia” (Guanda Editore)
7 da un intervista uscita sul Messaggero Veneto, il 12/03/2015
8 dalla poesia Brividi, da “Cardellini della pioggia” (Guanda editore)
9 dalla poesia Paesi di Spagna, da “Cardellini della pioggia” (Guanda editore)

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