venerdì 7 ottobre 2011

COLPO DI SOLE di M. Zakariya (07/10/2011)



Da oggi, per tre o cinque venerdì (è un dilemma che spero di risolvere a breve), dedicherò uno spazio particolare ai poeti palestinesi. Oltre alla questione in seno all’ONU riguardo al riconoscimento di uno Stato Palestinese, voglio portare la vostra attenzione verso una cultura e una letteratura che narra di un sogno palpabile, vissuto nella vita quotidiana, esternamente, senza vittimismo o sconforto. Ma solo cruda realtà, impastata di simbolismo e conflittualità biologica. 

La poesia palestinese è un canto di denuncia, di malinconia passione. Nei versi c’è romanticismo versp quella donna, la Palestina, che si lascia vedere e mai toccare. Che la si vede smembrare. Per questo i versi diventano di medesima pasta. Frammenti. Spezzettati, convogliano nello stesso abisso: nel ricordo, nel dolore di avere un luogo di nascita, ma nessuna residenza o bandiera che lo afferma. Negl’ultimi cinquant’anni la poesia palestinese è molto mutata. Inizialmente tradizionale negl’anni venti, con l’arrivo degli inglesi e degli ebrei, la cultura comincia a mutare. Cominciano i primi esili e i primi contatti con la cultura europea e delle coste del nord africa (dove molti poeti e scrittori, tutt’ora risiedono). Si abbandona la metrica, il verso comincia a sfaldarsi, a perdere pure la punteggiatura come a dire che il dialogo non ha più misura; nessun appiglio. Nessuna pausa. Dopo la nakba, l’esilio diviene discorso fisso. La Palestina è la madre uccisa, la moglie rapita, la figlia stuprata. Da fuori non resta che invocarla e preservarla. Cantandola. Denunciando.

Il primo poeta che vi leggo è Muhammad Zakariya. Nato nel 1951, dopo aver studiato fuori e lavorato a Beirut, Amman e Damasco, ora vive a Ramallah, dove dirige il Ministero della Cultura Palestinese - oltre che giornalista e insegnate di Scrittura Creativa.
I suoi versi, come potete bene vedere, sembrano brevi aforismi. Due righe e punto. Via ad un’altra storia. Questo è errato. Come ho detto precedentemente, la confusione e lo scombussolamento, il taglio duro e secco, la non linearità del testo è una tendenza rilevante nel sentimento e nella letteratura palestinese (vale anche per molti romanzieri). Questo è l’unico modo per dimostrare la verità: scrivere nello stato d’animo nel quale si vive. Nel modo più naturale e con parole pratiche e ben memorizzabili. Ci mettono il cuore. (Quello che un poeta dovrebbe far sempre.)
Questa poesia e le prossime, sono riprese dall’antologia della poesia palestinese “In un mondo senza cielo”, Giunti editore. Curata da Francesca Maria Corrao.

.Colpo di sole.
(Muhammad Zakariya)

Siamo nati da un colpo di sole
da un colpo di falce nell’aria
da un colpo di corno sulla pietra.

Abbiamo gettato la placenta ai cani.
Abbiamo gettato l’anima alla solitudine.

Ci siamo alzati su ginocchia spezzate
alzati col timore di non alzarsi mai.

Come misere donne abbiamo cucito
le nostre labbra sul silenzio.

Impuri eravamo alla preghiera dell’alba
impuri alla rosa
ai ricordi d’infanzia.

Sabbia è la nostra messe
sabbia il foraggio dei nostri cavalli.

Lì siamo saliti col fiato corto
col fiato corto ne siamo discesi.

Non v’è traccia dei nostri nomi
solo lettere assenti dal dizionario
non v’è traccia dei nostri padri
solo il silenzio dei cani alla porta.

Siamo aggrappati ai lacci delle scarpe
alle nostre ciglia
alla coda delle nostre comete.

Ci siamo accucciati come cani alla porta
disperati davanti alla rosa.

La rosa sgozzata nel sacrificio di mezzogiorno.

Era sparsa ovunque la nostra farina
il dolore un anello di ferro alle dita.

Dacci il tempo di riconoscere le nostre ombre
di farci crescere gli zoccoli ai piedi.

Sopra noi c’è una grande campana
ampia, ostinata, ci fa smarrire.

Preghiamo che taccia l’immensa campana
sulle labbra dei nostri morti.

Prendici per mano
per la vita, per i fianchi
siamo fratelli di cenere e fuoco.

Sono queste dita bagnate a sentire il vento
queste dita ferite dalle nostre domande infinite.

Ci siamo fatti gioco dei nostri nomi
della nudità dei nostri bottoni,
davanti a noi abbiamo spinto preghiere come porci.

Abbiamo legato agli asini alle gambe dei bambini
legato l’autunno all’estate per calmare i brividi.

Chiamaci da dietro le nostre stanze
chiamaci con vece di scandalo
che ci umili e ci denudi
una voce che strappi il legno e i giunchi.

Guidaci nel pregare oltre il dovere
perché i nostri animi siano retti.

Amari semi di coloquintide a pranzo
e pietre a cene
e il silenzio ci scorre tra le gambe come mestruo.

Preghiamo per spezzare i calcoli dei reni
preghiamo per spezzare il pane della cena.

Non sono invulnerabili le pietre
né la rosa:
il tuono sovrasta ogni cosa.

Siamo nati da labbra rovesciate
da palpebre rovesciate
da un colpo di corno sulla pietra.

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