La poetessa Tuqan è morta nel dicembre del 2003. Ha dedicato grossa parte della sua vita alla causa palestinese. Ha partecipato a numerosi incontri di poesia, ricevendo diversi premi internazionali. Nel 1960, a Roma, in un incontro sulla letteratura araba, conosce Montale (nella sua autobiografia la poetessa narra di aver dedicato una poesia a Montale per respingere cortesemente le sue attenzioni). Derivante da una famiglia conservatrice, le vengono negati gli studi. Sarà suo fratello, anch’egli poeta (Ibrahim Tuqan), il suo primo maestro.
Come la poesia di Gabka della scorsa settimana, i temi principali della situazione soffocante nel quale si ritrovano a sottostare, si rendono evidenti e palpabili. In questi versi c’è una sensibilità e sensualità serafica come se la poetessa volesse mostrarci fino a che punto tutto questo è arrivato: dentro, nella più remota parte dell’intimità. C’è quell’orto che racchiude tutti gli ultimi cento anni di Storia e conflitto. Abbiamo un mare che distrugge e sul quale si è costretti a salpare. C’è anche qualcosa che resta: dentro, dentro quegl’occhi; anch’essi destinati a fuggire.
.Nei gorghi della piena.
(Fadwa Tuqan)
Quella sera svanirono i volti
e attorno a noi svanì ogni cosa
tranne il radioso balenio azzurro
dei tuoi occhi e il richiamo
nell’azzurro irradiante
dove il mio cuore salpa
nave guidata dalle onde
e quella piena ci trascinò
verso un mare senza sponde
esteso senza limiti
né resa
narra l’onda la storia della vita –
e l’infinito
quando si riduce a uno sguardo
e la terra affonda nel precipizio
dei venti della marea e della pioggia.
Quella sera
si destò il mio orto,
hanno divelto lo steccato
le dita del vento
e fremeva nella danza dei venti e della pioggia
l’erba nel mio orto
e i fiori e i frutti.
Quella sera
svanirono i volti e ogni cosa
tranne il radioso balenio azzurro
dei tuoi occhi e il richiamo
nell’azzurro irradiante
dove il mio cuore salpa
nave guidata dalle onde.
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