La poesia vecchia. La poesia che non passa mai di moda, per
i poeti. Solita rima, soliti temi – amore, morte, Dio (ne farò un breviario più
avanti). Poco pathos, immagini fredde per via di metafore semplicistiche, retoriche.
Condivido l’assunto che ognuno è libero di scrivere e leggere
ciò che vuole, e questo è valso anche per me quando ho smesso di leggere le
poesie del libro “Il tempo mai breve” di Franco Marcoaldi (pubblicato da
Einaudi, come il resto dei suoi libri, e domando: perché Einaudi ti ostini a
tentar di vendere autori che non si rinnovano, che restano chiusi nell’ormai
paleolitico lirico che oscilla tra il 1400 e i primi decenni del ‘900, che
stancano perché non raffigurano il presente e le nuovi generazioni – che
partono dagl’anni ’60 fino ai giorni nostri -, privandoci dell’entusiasmo e
dell’interesse verso la poesia? Amici? Parenti? Perché perpetuare questo
stillicidio culturale?).
Ho fermato la mia lettura alla pagina 56. Ero malato e
deluso. Ero privo di emozioni ed esausto delle solite parole, tematiche, rime
forzate e fanciullesche. Difficilmente mollo la lettura di un libro, cerco
sempre di portarlo a termine per comprendere l’insieme strutturale e di
significato che l’autore ha costruito (sempre che lo faccia) per la sua opera.
Eppure è successo. E come non farlo quando le poesie sono discorsi cattolici
intrisi di morale che hanno come compito quello di instaurare un’egocentrica
visione di realtà e verità ultima. Questo è un male di molti autori italiani:
essere chiusi nella propria conchiglia e parlare unicamente di quello, della
propria vita come un diario di facebook. Mai una presa di posizione né un
ragguaglio sociale.
Da qui ecco il mio breviario. In poche parole, ho deciso di
inserire dei sottotitoli ai titoli (dopo averle lette) delle poesie. Diciamo un
avvertimento. Eccone qui alcuni di essi:
1. Ouverture (Cristiana);
7. Da Libera nos a Malo (moralista – brr…);
11. Assopirsi (lo dice il titolo);
13. La bellezza (a una donna – povera donna!);
14. La dolcezza inaspettata (macho man);
18. L’infra-tempo (evangelica);
37. A ciascuno il suo (terribile!);
poi a pagina 47, a piè di pagina, questa scritta [Stop
commenti].
Invece, la poesia che vi leggo, viene da “Celibi al limbo”,
antecedente al libro finora trattato, molto più interessante e ricco di spunti
riguardo al linguaggio e al metodo descrittivo della realtà che l’autore
propone. Ritroviamo la rima, l’Io narrante che avvolge l’intera situazione e
storia che si sviluppa nel libro (privo di coinvolgimento), ma almeno
ritroviamo immagini e metafore che non cascano in frasi fatte o ripetitive –
come capita spesso quando il testo è strutturato in rima.
La parola offre spunti e sensazioni. Il significato
filosofico (principalmente quello riguardante la morte) si mostra leggero, non
accademico, sensibilizzante.
Questo avviene dal capitolo VIII° fino al capitolo XVII°.
La prima parte è un continuo, ripetitivo dialogo a unica
voce con un linguaggio povero, scarso di contenuto, con domande retoriche e già
lette e sentite, ovunque: luoghi comuni.
L’ultimo capitolo, cioè il XVIII°, è la spiegazione di tutto
quello che si è letto – un’ennesima morale – come se fosse impossibile, per
noi, comprendere il poeta e la sua poetica che si struttura con versi tipo
questi:
“Ah Paolo, Paolo: dimmelo se lo sai,
perché questo sprofondo.
Quando si ruppe tutto?
Quando finimmo a fondo?”
o
“Giù a valle si lamenta
l’unica pecora che per errore
dal suo gregge esclusa
avrà stanotte in sorte
non dormir reclusa. Perché
se così è, se ne lamenta?”
Incomprensibile.
Incomprensibile che io sia l’unico a lamentarsene, e forse
anche a leggerle, evidenziando un problema: la distanza che si è creata tra la
poesia e i lettori (la vita e il mondo che ci circonda: l’attualità).
“VIII”
da CELIBI AL LIMBO
(Franco Marcoaldi)
Bene lo sa Camaleonte
il Malcontento, allomatico(?)
narciso che in passerella avanza
trepidante in cerca d’angelo:
terribile e indulgente.
Fifì, canta con voce di lutto
senza lacrime e dolore
sotto la volta cranica del cielo;
Fifì, mia dea ferita, carne
esibita, oggettiva e naturale;
tu sei l’ebbrezza di maestà
animale a cui mi affido
per ritrovare la mia traccia
nell’ordito corporale del ricordo.
Per batter via dal tappetino
cerebrale la polvere
in eccesso sulla soglia.
E finalmente varcarla,
nella ritrovata voglia
di partire, di viaggiare
guardando senza più spavento
la ferita dentro l’occhio;
di navigar nel proprio sangue,
di origliare il tocco della vena,
di preservare la pena
per un vecchio padre che trascina
la ciabatta in una casa collinare,
sciatta, sovraccarica
di ricordi confusi e dolorosi,
e di riposi tormentati,
di ingannevoli soffocati dalle botte.
E’ notte. Di nuovo notte. Lunga
inaffondabile iraconda.
E’ la notte dei risentimenti
che inebetisce i pensieri:
delle miserevoli vendette,
dei grandi gesti vani, dei furori
malposti sterili insani.
E’ la notte che mai passa
e mai comincia. E’ il tempo
inabitato inerte velleitario
del coatto; dell’insonne che s’appresta
a giocare solitario la solita
sua carta: donna di picche e quadri,
fiori e cuori, la donna delle donne,
girandola mentale di gabbia sessuale.
Uguale, per il re e per l’imperatore.
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