PREMESSA ALLA CRITICA.
Uno: sarà una recensione seria
e concisa.
Due: per un po’ lascerò
perdere le letture di viaggio. Feriscono, principalmente quando non si hanno
vacanze e il 15 agosto è un giorno lavorativo come un altro. Ahia iaia iai!
INIZIO DELLA CRITICA.
<<Può dirsi viaggiatore solo chi parte per partire.>>, diceva
Baudelaire. Come un abbandono. Come lasciarsi trasportare. Scoprendo per
scoprire. Passo dopo passo. Ogni cosa è “terra nova”. Come un esploratore
incosciente. Come un viandante che aspetta la meraviglia dietro una roccia.
Così Andrea Garbin, poeta
mantovano, nel suo ultimo libro “Croce del Sud” (Gilgamesh Edizioni), ci
accompagna nel suo viaggio ai confini più estremi del mondo tra i condor e le
alture e il mare ambrato di Neruda e tra le Ande misteriose sotto la lente
d’ingrandimento e il piccone di Francisco Moreno. Siamo in terra di grandi
battaglie e maestosa natura. Andrea esplora i luoghi e la descrizione fa da
capo bastione in queste poesie cariche di parole tronche che inzuppano di
immagini il lettore (“Nel perdersi
dell’ultimo tramonto/ si raccolgono le reti, e con esse/ gli intrappolati
affetti che al giorno fanno un canto/ cadono gli arbusti delle foglie flesse.”)
Ogni segno è una metafora (“mentre il
sole combatte l’indolente fioritura dei monti”). Ricorda Vallejo per le sue
ornamentali visioni, dove la natura è una galleria di allegorie e spettacolo.
Qui ci sono apparizioni oniriche, pulite, senza moto di lotta e collera
politica. Andra racconta solo ciò che i suoi occhi hanno visto: il mondo
naturale allo stato brado. Capita di incappare in riflessioni che portano a dei
paragoni. Come quando se la prende col degrado delle grandi metropoli, con la
frenesia della modernità. Ma sono sguizzi fuggevoli, poi nuovamente la steppa o
l’ombra di un cactus dove delle persone parlano di amore e serenità (“Divieni il volto dell’oceano ondoso/ che
fracassa queste gambe distese”).
Anche l’ignoto ha un suo
perché, e si rigenera in un’evidenza o in una conferma del fatto che “non c’è spazio, in questa terra, per chi non
conosce/ il proprio desiderio.”
Il tono è leggero, sempre,
pure quando parla della morte. Ci fa vedere la crudeltà di alcuni nostri gesti
e l’adorazione della natura verso se stessa e il silenzio (delle onde radio).
Tutta questa verde e bianca
rappresentazione, Andrea, come abbiamo già potuto vedere nelle sue opere
precedenti, e che io trovo interessante perché è un embrione sperimentale che
stacca i raggi alla bici della tradizione, viene declamata con un linguaggio
settecentesco, arcadico e cartesiano, in un classicismo che ripropone una
parola che ha il profilo di un oggetto e la nitidezza di un’opera geometrica
addobbatamente vitale. Una poesia new-oraziana, tra pura ode e semplice decoro.
L’unica pecca è il caos della
punteggiatura (e di alcuni errori di battitura) che rallenta la lettura e
spesso confonde. Troppe virgole inutili o fuori posto. Meglio quando la lirica
è sciolta e i versi si coniugano da sé in una disarticolazione verbale che da
ritmo (e lo dico anche essendo un amante dei due punti, delle virgole e del
resto della combriccola).
MORALE DELLA CRITICA.
Tra la “frenetica
stella dai quattro/ occhi”, i “caldi
conventillos”, la “nebbia che slabbra
le cose” e che “l’essenza del
cammino/ sta negli occhi di lei”: Sì, me gusta. Un buen trabajo.
.IL VOLO MIGRATORIO.
(Andrea Garbin)
Attraverso il riflesso, il vetro,
le imposte beccate che sui tuoi cardini
asciutti reprimevano la danza,
proiettavo l’occhio ad offuscare
un orizzonte, nebbia cava d’ore
quieta cade come strette forme
di gravide formiche forsennate;
crudi artigli di faggio che sorreggono
passeri, roteanti scrutatori
prossimi migranti nel modo d’oltre,
laggiù, noi tutti si sta sull’attenti
dando vita al corpo, al contatto,
alle fiamme rosse e le falci nere,
sulle nostre pelli contaminate
aumenta l’attrito tra vita e morte,
una nota soffusa, raggiunge l’apice:
parte così il volo migratorio
sotto gli sguardi di noi disattenti
che ancora ci chiediamo dove siamo.
Nessun commento:
Posta un commento