Ci sono diversi modi di fare poesia civile.
Qui ci troviamo davanti ad un esempio di poesia popolare, condita
di retroscena urbano, verità soffuse sbattute in faccia come cronaca quotidiana
discussa in qualche bar della Capitale o in un noiosissimo e fittizio TG
Nazionale.
Paola Musa, poetessa e scrittrice romana, si allontana molto
dall’ermetico poeticare delle sue contemporanee italiane.
La parola è un gettito di espressioni chiare e precise,
hanno uno scopo sociale e umano. Amore dedicato al prossimo, senza giudizio e
senza carità religiosa (anche se il tema è molto esposto nel libro del quale vi
parlo - “Ore venti e trenta”, edito da Albeggi Edizioni -, principalmente sulla
questione Islam; forse un po’ troppo marcata per via delle ripetizioni e di una
certa banalità e retorica del linguaggio).
I migliori testi dell’opera sono quelli trattati in Prima
Persona, dove l’autrice si fa completamente carico del dolore e voce del
problema. Il problema può essere la morte, la droga, l’assassino, la povertà,
la violenza sulle donne. I problemi sono quelli che vanno dalla periferia fin
dentro le case. Tutte opere narrate (uso questo termine perché la penna denota
il taglio narrativo della Scrittrice, tra descrittivo e prosastico) con occhio
critico, saggio e, alcune volte, semplicistico perché troppo fragili le immagini
e il senso. Troppa roba già letta e riletta senza apportare nulla di nuovo al
tema; nessuna novità nel linguaggio o nello sperimentare nuove forme
espressive, magari simboliche o più ritmiche.
C’è poca musica nei versi. Molto rigido il taglio
espressivo. Le allitterazioni sono scarse, le figure retoriche spesso si
stagliano nel cercare troppo la realtà dell’occhio. Ci volevano, a mio modesto
parere, un po’ di sfumature. Ma non per questo meno credito alla bellezza di
alcune poesie del libro che ci mostrano il mondo crudo e virale che non
vogliamo vedere: quello base, quello che incrociamo ogni giorno uscendo di
casa.
Se fossi un pazzo direi Bukowski (che Paola sembrerebbe conoscere
bene - c’è la seconda poesia del Libro che è molto simile a “Essi, tutti lo
sanno” del caro Charles).
Se non lo fossi dovrei smettere di leggere e fare poesia.
.Canti di paese.
(Paola Musa)
Cara Irma, da quando mi hai lasciato
la cucina si è incrostata di caffè
il pavimento è diventato il calendario
dei miei giorni di Alzheimer,
nessuno che cancelli il tempo andato.
Irma cara,
ti avevo promesso
il ritorno in paese, un piccolo orto
e una pensione operaia,
ma tu cocciuta te ne sei andata prima
non c’era robustezza ma solo volontà
nel tuo corpo invecchiato.
In questo alveare morirò, accostato
al pane che mi restituisce in briciole
questa grande città, non l’abbiamo
mai amata ma ci ha dato i figli
che ora mi visitano come si visita
una tomba, ogni domenica
o anche il martedì, quando va bene.
Io vado e vengo, soprattutto aspetto,
coi miei compari di panchina
che la morte si allontani,
e quando torno a casa, sull’ascensore,
se salgo con qualcuno non voglio salutare
e mio malgrado un braccio tremante mi tradisce.
A volte in questo immenso rifugio di cemento
vedo corpi di donne ma sono uomini,
a volte hanno un colore oscuro e acerbo
a volte portano il velo o strani cesti
e non so se sono donne, o uomini.
Forse sono solo i miei fantasmi,
Irma cara. Mi visitano nelle ultime ore
abitando oltre questa parete
da cui salgono i canti sconosciuti
di chissà quale paese ignoto
cui
non faranno ritorno, come noi.
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