Un simposio di lucida aritmetica verbale e di sadiche
visioni cuneiformi, oscillanti tra l’iperrealismo biologico e la metafora
dottrinale e fantastica – binomio necessario per parafrasare in versi la vita e
mettere l’arte, come esperienza umana, al
servizio degl’altri.
Reale ed ideale:
così inizia ed afferma la Premessa del libro “DODICI” di Francesco Teriaca
(500g Edizioni); una sinossi che spiega in dettaglio il pensiero che aleggerà e
si strutturerà nelle poesie e nei dipinti che affiancano ognuna di esse (opere
di Lorenzo Pasqua).
La Premessa ci annuncia che il libretto sarà un’operazione
di crudo realismo misurato da una bilancia che contrappone lo sfondo cupo
ambientale e quello cupo sentimentale, incentrato su un Io malsano – per via di
quel nefasto ambiente nel quale circumnavighiamo – che non si sofferma mai sul
proprio essere passato, ma su quello presente, in una funzione che, per ansia e
nevrosi, si colloca al di fuori del tempo.
In poche parole: diventa cronista distante di un evoluzione
oscura che comunque lo coinvolge e lo deteriora.
In poche parole: Non
poesia, dunque, ma bisogno intimo e nevrotico di universali situazioni umane.
Questa Premessa intercede l’Introduzione che è, in fin dei
conti, la rappresentazione poetica del discorso precedente.
Qui troviamo alcuni schizzi di sarcasmo lirico che non
troveremo più nelle altre poesie (“Sono
una cartoleria ambulante.” […] “Ho provato con la bibbia sul balcone / ma la
parabola non prende.”).
Da questo punto in poi, l’autore si immette su un’autostrada
che, a senso unico, conduce in un posto tetro e pieno di provette e cervelli in
salamoia; un luogo umido e freddo che solo Teriaca può gestire e professare
all’uomo perché sono quei suoi occhi a distanza ravvicinata a poterlo vedere e
conferire. Un po’ come i mondi paralleli dei personaggi di Murakami. Un po’
troppo meccanico e assolutista.
Un’altra verità confessata in questa Introduzione è il suo
borseggio – con maestria – di frasi di testi altrui (“Copio? Non ne dubito. / Ma non saccheggio”).
Infine, l’Introduzione, si conclude con quel moralismo
tipico da politico in campagna elettorale o da animale chiuso in gabbia che
ritroveremo in ogni singola poesia – come una malattia incurabile dell’anima: “E più mi sintonizzo con i malesseri del
mondo / e più, di quel che scrivo, io mi raccapriccio”.
Il moralismo si manifesta con un narcisistico pianto e
supplizio al quale Teriaca sembra conviverci senza interferire. Pone domande.
Lo conosce e lo espone.
L’Io nietzschiano col quale l’autore si presenta nelle sue
poesie, si traveste, a tratti, da equilibrista che oscilla e passeggia tra due
confini: quello del dolore e quello della possessione – tra paranoie kafkiane e
situazioni orwelliane.
Il dolore è un miscuglio di immagini tecniche e oniriche di
una terra violenta/violentata dove tutto è splatter, nero e bieco (“Nella giungla di asfalto e amianto / le
piante si irrorano di acido pianto, / un continuo frastuono di tamburi battenti
/ cadenza il ritmo di vetture viventi, / mezzi pubblici e grattacieli aziendali
/ delimitano il varco di padroni e manovali”).
La possessione si costituisce invece nel disarmo,
nell’impossibilità di prendere per mano quel dolore e cambiarlo, modificarlo,
sostituirlo con qualcosa di meglio, di buono. Il problema è nella mancanza di
mezzi per poter realizzare tale mutamento.
Nelle poesie di Teriaca il terreno sul quale si aggira è
sconfinato, ma assillato da tormento e cupidigia che l’autore non sembra saper
governare.
Questo lo si comprende anche dalle poesie d’amore che son proposte
con un fare così duro e plastico che l’immagine che mi ha suscitata è stata al
quanto bislacca: un tizio che cerca di portarsi a letto un computer mentre a
fianco una donna seziona un uomo conficcando il cuore, i reni, i polmoni dentro
a quella cassa di microchip sperando, in questo modo, di dargli vita.
La secchezza del verbo rende monca la musicalità. E’ una
pecca di Teriaca visibile in quasi tutte le poesie perché la ricerca di parole
obsolete e da sala operatoria universitaria, troncano l’andatura ritmica della
lingua. Non c’è studio in questo. Tutto è lasciato alla corretta ortografia
della frase scritta (“Non ho uno stile,
una metrica, […]). Quindi la musicalità muore – forse era questo il suo
intento e forse era questo il senso intrinseco e duplice del verso “Sono ossessionato dalla musicalità”; non
lo so. Comunque la chitarra del ritmo rinasce solo dove i versi sono in rima
baciata.
Accade in forma completa ed esaustiva nella II e VIII poesia. Ma parliamo di quest'ultima.
Sembra un’omelia, ma ha una sua forza empirica – stile messa
– anche grazie alle sue metafore longitudinali scattate in ogni verso – stile
funzione pasquale atea (“Rosola la carne
sull’altare votivo, / nel sangue si lavano le colpe da espiare”).
Qui, il ritmo secco si rallegra con rime che danno alito e battito
– quindi sentimento – alla poesia. Danno aria a questi testi così carichi di
architetture, filosofia e professori accademici.
Capita che la prosa sia talmente ripetitivamente ermetica e
vittimista da risultare sfiancante. E’ come se decretando i propri “peccati” al
pubblico lettore giudizioso, si potessero espiare. Manca la storia; troppo
arcaica e segreta la lirica. Niente pathos. Un Io eccesivo e logorante.
La sperimentazione si ferma alla pura parola, senza
innescare nessuna rivoluzione nel linguaggio e nella struttura poetica.
Il messaggio c’è. E’ assente la voce per declamarlo.
L’ho trovato un buon libro, con diversi aspetti da
migliorare e calibrare. Principalmente bisogna scovare quella voce e farsi
carico di quel che si preconizza.
Come scrisse Neruda nella sua poesia Canto a Stalingrado: “Io metto la mia anima dove voglio. […]/ La
mia voce è stata coi tuoi grandi morti / contro le tue stesse mura maciullate,
/ la mia voce suonò come campana e vento / vedendoti morire, Stalingrado.”
Metaforicamente parlando.
.II.
(da “DODICI”
di Francesco Teriaca)
Nella giungla di asfalto e
amianto
il cielo si avvolge di
torbido ammanto,
la ruggine afosa del primo
sole mattiniero
fodera i polmoni di un
catrame cinereo,
l’acrilico greve raschia la
cute squamata,
gli occhi s’infiammano
all’aria malata.
Nella giungla di asfalto e
amianto
i giardini pensili
scompaiono d’incanto,
ciminiere smorte di opifici
suburbani
emanano effluvi di gas
butani,
adombrano l’aria d’argentea
rugiada,
deturpano i condotti fino
alla strada.
Nella giungla di asfalto e
amianto
le piante si irrorano di
acido pianto,
un continuo frastuono di
tamburi battenti
cadenza il ritmo di vetture
viventi,
mezzi pubblici e grattacieli
aziendali
delimitano il varco di
padroni e manovali.
Nella giungla di amianto e
asfalto
in fila marciano sull’area
in appalto,
ortogonali passano fissando
dinnanzi
come topi tra il pattume in
cerca di avanzi,
sono locuste ghiotte di
denaro avariato
che idolatrano feticci
quotati al mercato.
Nella giungla di amianto e
asfalto
il grano degusta di pece e
il bitume di malto,
bipedi femminei passeggiano
in mostra
come bestie al guinzaglio
dentro una giostra,
dalle fogne esala un odore
di guano,
barboni ubriachi si scaldano
invano:
e sul freddo ciglio di una
banchina in cemento,
un corpo esanime chiede un
solo momento.
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