venerdì 29 marzo 2013

"DODICI" di Francesco Teriaca (29/03/2013)



Un simposio di lucida aritmetica verbale e di sadiche visioni cuneiformi, oscillanti tra l’iperrealismo biologico e la metafora dottrinale e fantastica – binomio necessario per parafrasare in versi la vita e mettere l’arte, come esperienza umana, al servizio degl’altri.
Reale ed ideale: così inizia ed afferma la Premessa del libro “DODICI” di Francesco Teriaca (500g Edizioni); una sinossi che spiega in dettaglio il pensiero che aleggerà e si strutturerà nelle poesie e nei dipinti che affiancano ognuna di esse (opere di Lorenzo Pasqua).
La Premessa ci annuncia che il libretto sarà un’operazione di crudo realismo misurato da una bilancia che contrappone lo sfondo cupo ambientale e quello cupo sentimentale, incentrato su un Io malsano – per via di quel nefasto ambiente nel quale circumnavighiamo – che non si sofferma mai sul proprio essere passato, ma su quello presente, in una funzione che, per ansia e nevrosi, si colloca al di fuori del tempo.
In poche parole: diventa cronista distante di un evoluzione oscura che comunque lo coinvolge e lo deteriora.
In poche parole: Non poesia, dunque, ma bisogno intimo e nevrotico di universali situazioni umane.
Questa Premessa intercede l’Introduzione che è, in fin dei conti, la rappresentazione poetica del discorso precedente.
Qui troviamo alcuni schizzi di sarcasmo lirico che non troveremo più nelle altre poesie (“Sono una cartoleria ambulante.” […] “Ho provato con la bibbia sul balcone / ma la parabola non prende.”).
Da questo punto in poi, l’autore si immette su un’autostrada che, a senso unico, conduce in un posto tetro e pieno di provette e cervelli in salamoia; un luogo umido e freddo che solo Teriaca può gestire e professare all’uomo perché sono quei suoi occhi a distanza ravvicinata a poterlo vedere e conferire. Un po’ come i mondi paralleli dei personaggi di Murakami. Un po’ troppo meccanico e assolutista.
Un’altra verità confessata in questa Introduzione è il suo borseggio – con maestria – di frasi di testi altrui (“Copio? Non ne dubito. / Ma non saccheggio”).
Infine, l’Introduzione, si conclude con quel moralismo tipico da politico in campagna elettorale o da animale chiuso in gabbia che ritroveremo in ogni singola poesia – come una malattia incurabile dell’anima: “E più mi sintonizzo con i malesseri del mondo / e più, di quel che scrivo, io mi raccapriccio”.

Il moralismo si manifesta con un narcisistico pianto e supplizio al quale Teriaca sembra conviverci senza interferire. Pone domande. Lo conosce e lo espone.
L’Io nietzschiano col quale l’autore si presenta nelle sue poesie, si traveste, a tratti, da equilibrista che oscilla e passeggia tra due confini: quello del dolore e quello della possessione – tra paranoie kafkiane e situazioni orwelliane.
Il dolore è un miscuglio di immagini tecniche e oniriche di una terra violenta/violentata dove tutto è splatter, nero e bieco (“Nella giungla di asfalto e amianto / le piante si irrorano di acido pianto, / un continuo frastuono di tamburi battenti / cadenza il ritmo di vetture viventi, / mezzi pubblici e grattacieli aziendali / delimitano il varco di padroni e manovali”).
La possessione si costituisce invece nel disarmo, nell’impossibilità di prendere per mano quel dolore e cambiarlo, modificarlo, sostituirlo con qualcosa di meglio, di buono. Il problema è nella mancanza di mezzi per poter realizzare tale mutamento.
Nelle poesie di Teriaca il terreno sul quale si aggira è sconfinato, ma assillato da tormento e cupidigia che l’autore non sembra saper governare.
Questo lo si comprende anche dalle poesie d’amore che son proposte con un fare così duro e plastico che l’immagine che mi ha suscitata è stata al quanto bislacca: un tizio che cerca di portarsi a letto un computer mentre a fianco una donna seziona un uomo conficcando il cuore, i reni, i polmoni dentro a quella cassa di microchip sperando, in questo modo, di dargli vita.
La secchezza del verbo rende monca la musicalità. E’ una pecca di Teriaca visibile in quasi tutte le poesie perché la ricerca di parole obsolete e da sala operatoria universitaria, troncano l’andatura ritmica della lingua. Non c’è studio in questo. Tutto è lasciato alla corretta ortografia della frase scritta (“Non ho uno stile, una metrica, […]). Quindi la musicalità muore – forse era questo il suo intento e forse era questo il senso intrinseco e duplice del verso “Sono ossessionato dalla musicalità”; non lo so. Comunque la chitarra del ritmo rinasce solo dove i versi sono in rima baciata.
Accade in forma completa ed esaustiva nella II e VIII poesia. Ma parliamo di quest'ultima.
Sembra un’omelia, ma ha una sua forza empirica – stile messa – anche grazie alle sue metafore longitudinali scattate in ogni verso – stile funzione pasquale atea (“Rosola la carne sull’altare votivo, / nel sangue si lavano le colpe da espiare”).
Qui, il ritmo secco si rallegra con rime che danno alito e battito – quindi sentimento – alla poesia. Danno aria a questi testi così carichi di architetture, filosofia e professori accademici.
Capita che la prosa sia talmente ripetitivamente ermetica e vittimista da risultare sfiancante. E’ come se decretando i propri “peccati” al pubblico lettore giudizioso, si potessero espiare. Manca la storia; troppo arcaica e segreta la lirica. Niente pathos.  Un Io eccesivo e logorante.
La sperimentazione si ferma alla pura parola, senza innescare nessuna rivoluzione nel linguaggio e nella struttura poetica.
Il messaggio c’è. E’ assente la voce per declamarlo.

L’ho trovato un buon libro, con diversi aspetti da migliorare e calibrare. Principalmente bisogna scovare quella voce e farsi carico di quel che si preconizza.
Come scrisse Neruda nella sua poesia Canto a Stalingrado: “Io metto la mia anima dove voglio. […]/ La mia voce è stata coi tuoi grandi morti / contro le tue stesse mura maciullate, / la mia voce suonò come campana e vento / vedendoti morire, Stalingrado.
Metaforicamente parlando. 


.II.
(da “DODICI”
di Francesco Teriaca)


Nella giungla di asfalto e amianto
il cielo si avvolge di torbido ammanto,
la ruggine afosa del primo sole mattiniero
fodera i polmoni di un catrame cinereo,
l’acrilico greve raschia la cute squamata,
gli occhi s’infiammano all’aria malata.

Nella giungla di asfalto e amianto
i giardini pensili scompaiono d’incanto,
ciminiere smorte di opifici suburbani
emanano effluvi di gas butani,
adombrano l’aria d’argentea rugiada,
deturpano i condotti fino alla strada.

Nella giungla di asfalto e amianto
le piante si irrorano di acido pianto,
un continuo frastuono di tamburi battenti
cadenza il ritmo di vetture viventi,
mezzi pubblici e grattacieli aziendali
delimitano il varco di padroni e manovali.

Nella giungla di amianto e asfalto
in fila marciano sull’area in appalto,
ortogonali passano fissando dinnanzi
come topi tra il pattume in cerca di avanzi,
sono locuste ghiotte di denaro avariato
che idolatrano feticci quotati al mercato.

Nella giungla di amianto e asfalto
il grano degusta di pece e il bitume di malto,
bipedi femminei passeggiano in mostra
come bestie al guinzaglio dentro una giostra,
dalle fogne esala un odore di guano,
barboni ubriachi si scaldano invano:
e sul freddo ciglio di una banchina in cemento,
un corpo esanime chiede un solo momento.

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