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MURALE (VI° parte)
di Mahmud Darwish
Verde la terra del mio poema, verde e alta…
Piano lo annoto, piano,
al ritmo dei gabbiani nel libro dell’acqua. Lo scrivo
e lo lascio in eredità a coloro che si domandano:
per chi canteremo
quando la salsedine si diffonderà nella rugiada?
Verde, lo scrivo nel libro dei campi
sulla prosa delle spighe, incurve da un pallido turgore
che è in loro, che è in me. Ogni volta che sono diventato
amico
o fratello di una spiga, ho imparato a sopravvivere
al nulla e al suo contrario: <<Sono il chicco di grano
che muore per germogliare di nuovo,
nella mia morte c’è vita…>>
Come se io non fossi, come se io…
là nessuno è morto al mio posto.
Quali parole rammentano i morti, se non
di gratitudine: <<Dio avrà pietà di noi…>>?
Mi consola ricordare la retorica dimenticata:
<<Non ho generato un figlio che porterà la morte
del genitore…>>.
Ho preferito la libera unione tra vocaboli…
La femmina s’imbatterà nel maschio adatto
nella poesia che volge alla prosa…
Le mie membra cresceranno forti su un sicomoro,
il mio cuore verserà la sua acqua terrena
su uno degli astri… Chi sono io, nella morte,
dopo di me? Chi sono io, nella morte, prima di me?
Mi ha detto un vago spettro: <<Osiride
era come te. Con me. Il figlio di Maria
era come te. Come me.
Ma la ferita al momento opportuno fa soffrire
il nulla malato e innalza la morte temporanea
a idea…>>.
Da dove viene la poesia?
Dall’acume del cuore o dal primitivo senso
dell’ignoto? O da una rosa rossa
nel deserto? Il personale non è personale
né universale l’universale…
Come se io non fossi, come se io…
Ogni volta che ascolto il cuore mi riempio
di ciò che dice l’invisibile e gli alberi mi portano in
alto.
Di sogno in sogno
m’involo, non ho fine ultimo.
Nascevo da millenni di poesia
nel buio di un bianco lino
e davvero non sapevo chi, in noi, fosse me e chi
il mio sogno. Sono il mio sogno,
come se io non fossi, come se io…
La mia lingua non abbandonava il suo timbro pastorale
se non nella migrazione al nord. I nostri cani
si sono quietati e le nostre pecore avvolte di nebbia sulle
colline. Una freccia vagante ha trafitto il volto
della certezza. Sono stanco della mia lingua che dice e
non dice a dorso di cavallo cosa fa il passato
dei giorni di Imru’al-Qays, diviso
tra Cesare e una rima…
Ogni volta che mi sono rivolto alle mie divinità,
là, nel paese della porpora, una luna cinta da Anat
Mi ha illuminato. Nella storia, Anat è la signora della
metafora. Non piangeva per nessuno, ma per le sue beltà
ha pianto:
Tutta questa malia
è per me sola?
Perché non c’è un
poeta
che condivida il
vuoto dell’alcova nella mia gloria?
E colga dal
recinto della femminilità
l’abbondanza delle
mie rose?
Non c’è un poeta
che seduca
il latte della
notte nel mio seno?
Sono la prima
e sono l’ultima.
I miei limiti han
superato i miei limiti
e dopo di me
correranno gazzelle nelle parole,
nulla prima di me…
né dopo.
Sognerò, non per riparare i carri del vento
o un guasto dell’anima,
la leggenda ha preso posizione, congiura
nel corso del reale. Il poema non può
più modificare un passato che passa e non passa,
né fermare il sisma.
Ma sognerò,
forse un paese mi accoglierà così come sono,
uno degli abitanti di questo mare
che ha smesso di porre il difficile quesito: <<Chi
sono, qui?
Il figlio di mia madre?>>.
Non sono assalito dai dubbi né assediato
dai pastori o dai re.
E’ con me il mio presente, come il mio domani.
E con me la mia piccola agenda: ogni volta che un uccello
sfiora una nuvola, io annota: il sogno mi ha sciolto
le ali. M’involo anch’io.
Ogni creatura è uccello. E io sono io,
null’altro.
Sono uno degli abitanti di questa piana…
Alle feste dell’orzo visito le mie rovine
splendenti come un tatuaggio sull’identità.
Non le disperde né le perpetua al vento…
Alla festa dell’uva bevo avidamente un calice di vino
dai venditori ambulanti… leggera mi è l’anima,
appesantito dal luogo e dai ricordi il corpo.
A primavera divento il pensiero di una turista
che scriverà sulla cartolina: <<A sinistra
del teatro abbandonato, un giglio e una figura
misteriosa. A destra, una città moderna.>>
E io sono io, null’altro…
Non sono un suddito di Roma di guardia
alle vie del sale. Ma devo pagare
una quota sul sale del mio pane e dico alla Storia:
orna i tuoi carri con schiavi e re umiliati, e passa…
nessuno adesso dice: no.
E io sono io, null’altro,
uno degli abitanti di questa notte. Sogno
di salire lassù col mio cavallo, lassù…
per risalire alla sorgente dietro la collina.
Resisti, o mio
cavallo, nel vento non siamo più diversi…
Tu sei la mia
giovinezza, io la tua ombra.
E allora drizzati
come un’alif e stronca i fulmini,
strofina con lo
zoccolo
delle passioni le
vene dell’eco e sali,
rinnovati e
drizzati come un’alif, tenditi,
o mio cavallo,
drizzati come un’alif, non cadere
dall’ultimo pendio
come un vessillo abbandonato
nell’alfabeto. Nel
vento non siamo più diversi,
tu sei il mio
pretesto, io la tua metafora
fuori dai cortei
ammaestrati come i destini.
E allora avventati
e scava il mio tempo nel mio luogo,
o cavallo.
Ché il luogo è la
via, e non c’è via sul cammino
tranne te che
ferri il vento.
Accendi le stelle
nel miraggio!
Accendi le nubi
nell’assenza, sii mio fratello
e guida dei miei
fulmini, o mio cavallo.
Non morire
sull’ultimo pendio
né prima né dopo
né con me.
Osserva le
ambulanze e i morti…
potrei essere
ancora vivo.
Sognerò, non per restaurare un qualche significato esteriore
ma per riparare la mia desolata interiorità
dall’aridità sentimentale. Ho imparato a memoria
tutto il mio cuore: non è più invadente
e viziato. Gli basta un’aspirina
per intenerirsi e arrendersi. Come se fosse il mio estraneo
vicino,
non mi piego alle sue passioni e alle sue donne.
Il cuore, come il ferro, arrugginisce, non si lamenta né
s’intenerisce,
non impazzisce alla prima pioggia di libera tenerezza, non
tintinna per la siccità come l’erba d’agosto.
Come se il mio cuore fosse ascetico o superfluo,
sembra la lettera kaf,
il come dei paragoni.
Quando si prosciuga l’acqua del cuore,
l’estetica diventa più astratta,
gli affetti si avvolgono nei mantelli
e la verginità nell’abilità.
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